A sentirlo, il discorso ancipite di Piero Grasso, Presidente del Senato voluto dal PD, e ora, in costanza di carica, fondatore e leader di “Liberi e uguali”, è stato tutto un “c’è, ma non si vede”. Dove “c’è”, beninteso, è il Piero Grasso già magistrato.
E’ “…il più significativo capitolo della mia esistenza…”, dice: ed è rilievo indiscutibile, dato che lo è stato fino al 2012, dal 1968.
Con Grasso, quasi fosse il naturale corso delle cose, a quel punto della vicenda repubblicana, con la sua calcolata bonomia, il laterale understatement del suo eloquio dimesso, si è impresso un suggello allo squilibrio fondativo della Seconda Repubblica: nata dall’asse procuratorio Milano-Palermo. La toga è stata la ragione giustificativa, l’unica, per assumere la seconda carica dello Stato. “Meriti giudiziari” sono maturati, e poi sfociati a dirittura, in mandato politico. E da quei dichiarati meriti originari, e proprio verso il partito che pure aveva tramutato, per lui, l’incerta fatica di un’elezione in trionfale chiamata honoris causa, tralignano ora mire fratricide.
Le dimissioni dalla Casa-madre giudiziaria sono state solo la forma di una cesura, che non poteva avere, nè mai ha avuto, realtà: “…porto tutta la mia storia, ma mai mi farò scudo del passato”. E’ tutta qui, l’ambiguità storica, politica, culturale della vicenda: sua e nostra. Se la cesura fosse stata effettivamente tale, questa sorta di avvertenza, di bugiardino personal-politico, non avrebbe avuto senso alcuno.
E perché, e come, il suo passato dovrebbe potergli fare da scudo? “Scudo” da che? “Scudo” da chi? Il campo metaforico bellico, prescelto all’insegna di un distacco, di uno iato temporale fra ieri e oggi, lungo una filigrana che vorrebbe assicurare quel “c’è, ma non si vede”, invece resiste sul proscenio: in Sicilia, dove si sono “vinte molte battaglie…”, “…la guerra è ancora in corso, e viene portata avanti ogni giorno da donne e uomini di cui dobbiamo essere fieri…”.
Sono compresi, nel novero, anche il dott. Bruno Contrada, il Generale Mario Mori? Forse la risposta potrebbe essere uno scudo. Ma anche una non-risposta: “Non c’è bisogno, credo, di parlare di giustizia e lotta alla criminalità; avremo modo e tempo.” Per l’ambivalenza del richiamo, per l’allusività sul futuro, è sembrato potesse bastare.
Spalle al coperto, si cambia fronte: “Oggi voglio parlare di giustizia sociale.” Interessante. Tuttavia, aver vissuto un’intera esperienza professionale entro i binari dell’automatismo e del privilegio funzionariale, potrebbe alimentare, senza soverchio sforzo, più di un dubbio sulla capacità intendere, anche solo approssimativamente “…chi ha perso tutto in pochi di istanti, a causa di un terremoto, o di una alluvione…”; e sulla conseguente capacità politica, che quella personale in primo luogo riflette, di “…ridurre le diseguaglianze…”.
A campione: dal maggio 1979 al marzo 1988 (che, solo per la memoria storica repubblicana, furono anche gli anni del processo Tortora; del Referendum –neutralizzato- sulla responsabilità civile dei magistrati; delle polemiche di Falcone, proprio sulla valutazione dei magistrati e sulla separazione delle carriere, delle sue vicissitudini, e di molte altre note vicende), furono valutati 7973 magistrati, solo 52 furono bocciati, gli altri, il 99,3%, tutti promossi; nel dopo-Tangentopoli, fra il 1993 e il 2003, il 98,79% furono promossi. Nel 2007 si vara e vanta una riforma, ma la “prassi consolidata” non cambia: nei sette anni dal Settembre 2007 al Settembre 2014, promossi il 99,1%.
Per intendere a fondo le tribolazioni, le incertezze di chi, in sue parole, “…magari ha un lavoro, un negozio, un’impresa, una professione, una pensione, ma questo non gli basta per vivere una vita dignitosa”, ecco, forse, quello non pare l’ambiente formativo più adatto.
Dice Grasso di volere “…una scuola e un’università che rispettino il valore degli insegnanti…”. Molto bene. Ma “lo scudo” che dice? Vuole anche una magistratura che rispetti quel valore? Solo per saperlo: perché la Professoressa Ilaria Capua, per esempio, dopo aver vissuto “un incubo senza confini” in vista di un ergastolo, per la fantasmatica accusa di “Epidemia”, quando ha deciso di “tornare nel mondo scientifico”, alla fine dell’incubo lo ha potuto fare. Ma, “purtroppo, non in quello italiano”: perché, in Italia, le era stato tolto arbitrariamente “il rispetto”, per sè, dagli altri. La magistratura dei todos caballeros l’aveva devastata: proprio come un terremoto, o un alluvione.
L’attesa, l’inquietudine estenuante in cui si può consumare una vita, paiono andare e venire carsicamente dal quel passato: difficile, aggiunge, “…guardare negli occhi…chi da troppo tempo aspetta dallo Stato giustizia e verità…”. Sta forse parlando di Fiammetta Borsellino? Se fosse, giù il cappello. Perché l’ultima volta, sul palco del XXV anniversario della Strage del padre, la figlia ha detto: “Non sono Grasso, che arriva, fa l’intervento e se ne va” e, come altri, non “una parola di conforto”.
Liberi e uguali. Cominciare con l’essere “solo” liberi, sarebbe certo un piccolo passo per la platea dell’ “Atlantico”, ma un gran passo per l’Italia.