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November 19, 2017
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Tasse GOP: Reintrodurre la schiavitù? Perchè no?

La riforma fiscale repubblicana passa alla Camera e giunge al Senato ma i dubbi restano

Marcello CristobyMarcello Cristo
Tasse GOP: Reintrodurre la schiavitù? Perchè no?

Paul Ryan finalizza con la sua firma il disegno di legge

Time: 5 mins read

Ogni volta che i conservatori americani parlano di tasse, mi fanno ripensare alla famosa storia di Monsieur Jacques de La Palisse, il gentiluomo francese vissuto nel 400 e divenuto celebre per il suo epitaffio che dice: “Qui giace il Signor de La Palisse che, se non fosse morto, sarebbe ancora vivo”.

Ad onor del vero, la notorietà di La Palisse è dovuta ad un equivoco calligrafico dal momento che l’iscrizione sulla sua tomba dice in realtà: “Ci-gît le Seigneur de La Palisse: s’il n’était pas mort, il serait encore envie” vale a dire “Qui giace il Signor de La Palisse il quale, se non fosse morto, sarebbe ancora invidiato”.

Un errore di lettura avvenuto negli anni successivi tuttavia, scambiò la parola envie (invidiato) per en vie (in vita) dando luogo alla famosa tautologia lapalissiana che divenne, nei secoli a venire, il sinonimo di un fatto scontato: si dice che una cosa è lapalissiana se costituisce un’ovvietà talmente banale ed auto-evidente da essere ridicola.

Una nuova versione di questa famosa lapalissade si è materializzata qualche settimana fa quando, nel corso di una conferenza stampa, la portavoce della Casa Bianca, Sarah Huckabee Sanders, ha tentato di difendere la recente proposta repubblicana di riforma fiscale dall’accusa di favorire i milionari e la grande industria.

La Huckabee Sanders ha pensato bene di utilizzare, per la sua spiegazione, una convoluta metafora che ha tirato in ballo i giornalisti presenti, dei boccali di birra e il metodo utilizzato dai suddetti giornalisti per pagare il conto della birra stessa.

“Immaginiamo che dieci amici, diciamo dieci giornalisti, – ha detto la portavoce – ogni settimana vadano a farsi una birra assieme e che il conto totale, alla fine della rimpatriata, sia di 100 dollari.

Se questi cento dollari del conto venissero suddivisi tra i dieci amici applicando le stesse aliquote dell’attuale regime fiscale, i primi quattro amici pagherebbero zero, il quinto pagherebbe 1 dollaro, il sesto 3 dollari, il settimo 7, l’ottavo 12, il nono 18 e il decimo pagherebbe 59 dollari”.

“Ammettiamo – ha continuato la Sanders – che un giorno il proprietario del bar (che nell’esempio rappresenterebbe il governo che taglia le tasse NdR) decida di ringraziare il gruppo per la sua lealtà al locale, offrendo uno sconto del venti percento e riducendo così il totale del conto da 100 a 80 dollari. Se i venti dollari di sconto venissero ripartiti tra i dieci amici usando le stesse percentuali, il numero di persone che bevono gratis salirebbe da 4 a 5. Il contributo delle prossime quattro persone si ridurrebbe di uno o due dollari mentre la maggior parte dello sconto (10 dei 20 dollari) andrebbe al decimo giornalista, che vedrebbe il suo contributo ridursi da 59 a 49 dollari”.

“A questo punto – ha concluso la Sanders – immaginiamo che i primi nove amici inizino a recriminare e a protestare per l’iniqua distribuzione dello sconto riflettendo sul fatto che ben 10 dei 20 dollari risparmiati, siano finiti nelle tasche del decimo giornalista e che quest’ultimo, offeso dal risentimento dei suoi compagni, il weekend successivo decida di non si presentarsi all’appuntamento settimanale. I nove giornalisti rimasti, si siedono a bere senza di lui ma, al momento del conto scoprono di non avere, tra di loro, abbastanza soldi nemmeno per pagare la metà del dovuto”.

Questa bella metafora rappresenta l’argomento fondamentale che i conservatori americani tirano fuori puntualmente ogni volta che si parla di politica fiscale per evidenziare il fatto che i ricchi già pagano la stragrande maggioranza delle tasse attuali e che, se la pressione fiscale su di loro dovesse continuare ad aumentare (o se non dovesse diminuire), alla fine potrebbero decidere di “andarsene” vale a dire di spostare le proprie attività produttive all’estero o di rinunciare del tutto a nuovi investimenti causando perdite massicce di posti di lavoro e un disastroso aumento della disoccupazione.

Ed è qui che che torna in ballo il nostro Monsieur de La Palisse.

La banale ovvietà della quale i conservatori convenientemente non parlano e che, incredibilmente, l’opinione pubblica non pare afferrare, è che il sistema fiscale americano, così come quello dei maggiori paesi industrializzati, è progressivo vale a dire riflette la ricchezza dei contribuenti. Se i ricchi pagano la stragrande maggioranza delle tasse è perché posseggono la stragrande maggioranza della ricchezza!

La disparità dei contributi fiscali americani quindi, non è altro che la conseguenza di una diseguaglianza sociale che, in questo paese, è già da Terzo Mondo e che i conservatori, con questa riforma che hanno in serbo, non faranno altro che esacerbare. Giustificare questi tagli alle tasse dicendo che i ricchi già si sobbarcano la stragrande maggioranza del peso fiscale senza parlare della sua causa, (l’enorme concentrazione della ricchezza nelle loro mani) è paragonabile ad un medico che parli al suo paziente solo del sintomo che lo affligge senza fare alcun cenno alla malattia che lo provoca.

A prescindere dal clima economico prevalente, il pilastro principale della politica economica del Partito Repubblicano americano è incentrato sempre sugli sgravi fiscali per i ceti più facoltosi e per le grandi multinazionali. La giustificazione addotta è che solo “liberando” la grande industria dal giogo delle tasse e delle normative governative (ambientali, di sicurezza…) si incentivano questi ceti produttivi ad investire e a creare lavoro per tutti noi comuni mortali.

Il sottinteso implicito in questa idea ovviamente è che solo questi pochi “eletti” sono in grado di espandere l’attività produttiva e che quindi a loro e solo a loro, va concessa ogni forma di sostegno sotto forma di sgravi fiscali.

Ma, come spiega ogni testo di Macroeconomia, il gettito fiscale consente di intraprendere opere pubbliche e lo sviluppo di infrastrutture (porti, aeroporti, strade ecc.) che, in aggiunta a creare salario immediato per chi le costruisce, giocano anche, nel lungo periodo, un ruolo fondamentale nella crescita economica.

Inoltre, immaginiamo che queste stesse tasse vengano usate per dimezzare le rette di ammissione delle università pubbliche o di renderle completamente gratuite consentendo a migliaia di ragazzi che al momento non possono permetterselo, di ottenere un titolo di studio.

Non è lecito attendersi che almeno alcuni di questi potenziali dottori, scienziati, programmatori informatici abbiano le capacità imprenditoriali per far partire un’azienda e creare posti di lavoro?

E pur accettando la premessa che siano solo i ricchi e le aziende esistenti ad essere in grado di incrementare l’attività economica e quindi gli unici ad aver diritto agli sgravi fiscali, non sarebbe opportuno assicurasi che tutti questi soldi risparmiati in tasse vengano effettivamente reinvestiti in modo da creare occupazione?

Uno dei fattori che sta modificando il panorama occupazionale globale è l’aumento della meccanizzazione. In un numero sempre crescente di settori, robot e macchinari elettronici sono ormai in grado di sostituire migliaia di operai sulle catene di montaggio.

Che succede se le aziende decidono di utilizzare tutti i soldi risparmiati in tasse per acquistare nuovi robot e assumere meno operai?

O di riacquistare i propri titoli sui mercati finanziari per gonfiare artificialmente il valore delle proprie azioni?

Se, come sostengono i conservatori, le grandi aziende e i ricchi in generale sono gli unici in grado di creare lavoro, occupazione e ricchezza e perciò è necessario tagliare loro le tasse senza alcun’altra garanzia o considerazione finanziaria, sociale e morale, allora tanto vale reintrodurre la schiavitù, una “strategia produttiva” che, a suo tempo, ha consentito ad una minoranza di “illuminati” di creare imprese di enorme successo e di aumentare, nel tempo, il Prodotto Interno Lordo.

E’ lapalissiano…

 

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Marcello Cristo

Marcello Cristo

Sono nato e cresciuto a Napoli dove, nella tradizione magno-greca della mia città, mi sono laureato in Filosofia. Vivo negli Stati Uniti con la mia famiglia da oltre vent'anni facendo la spola tra New York e la California. Dall’America, ho iniziato a collaborare con pubblicazioni italiane come Il Giornale di Indro Montanelli e La Gazzetta dello Sport di Candido Cannavò e poi con il quotidiano in lingua italiana degli Stati Uniti America Oggi per il quale ho lavorato come editor, opinionista e corrispondente dalla California. Nei ritagli di tempo, sto tentando disperatamente di insegnare ai miei figli il napoletano.

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