Allora. Roberto Saviano ha annunciato di aver fatto una scoperta, e tanto deve averla ritenuta un inedito, da avergli dedicato un’apposita intervista, su Repubblica: “L’amministrazione della giustizia in Italia è più che un incubo: è un dramma. E forse è il principale responsabile del collasso delle nostre istituzioni e della nostra credibilità internazionale”.
Alla grande scoperta è giunto per successive illuminazioni.
La prima. Circa nove anni fa, in un processo, venne letta una dichiarazione di due imputati, da parte del loro difensore, l’avvocato Michele Santonastaso. Quella dichiarazione venne ritenuta minacciosa anche verso Saviano e, per questo, quell’avvocato è stato condannato in primo grado ad un anno di reclusione. “Non mi aspettavo certo che dopo quasi dieci anni da quella lettura in aula fatta da Santonastaso, non ci fosse ancora un giudizio definitivo.”. Ah no? Non se l’aspettava? Che dopo dieci anni, in Italia, possa non compiersi un giudizio penale definitivo?
Non se l’aspettava. Ma non c’è da stupirsene, se passiamo alla seconda illuminazione.
Questa indicibile inerzia, sostiene, non c’entra nulla con i magistrati. Anzi, non lo sostiene nemmeno: lo dà per implicito, come è ovvio che se un ponte crolla, il primo da escludere è l’ingegnere che lo ha progettato e costruito; se un paziente muore, fuori discussione che si dubiti del medico; e se c’è un ammanco di cassa, guai a parlar male del cassiere: che poi si offende. Perciò, come non capire che se un processo dura dieci anni, e ancora balbetta di non sapere che dire, è certo cosa cattiva e ingiusta: ma che gli unici a non avere la benchè minima responsabilità sono i magistrati? Perciò, dicevo, Saviano nemmeno lo precisa esplicitamente.
La durata irragionevole è segno sicuro di una colpa, ma riguarda altro soggetto: “la politica”. Eh sì, perché l’originalità dell’analisi, il coraggio di sapersi mettere controvento, costituiscono proprio il carattere fondamentale del Nostro. E’ più forte di lui. “La politica”. E cosa, se no? Lo dicono tutti, e lo dice pure lui. Che male c’è? Nulla.
Senonché, e siamo alla terza illuminazione, proprio sotto i suoi occhi ci sarebbe stata la dimostrazione che, se un processo si trascina per dieci anni senza concludersi, farne carico a “la politica” pare affermazione buona solo per i tarocchi. Evocata, la maledetta “politica”, giustappunto, come una sorta di divinità responsabile di tutto e, quindi, di niente.
Sentiamolo ancora: “Prendiamo il processo nato dalle minacce che mi ha rivolto Santonastaso in aula nel 2008: la condanna di primo grado è arrivata a novembre 2014. Quasi tre anni dopo, il processo di appello non è ancora iniziato tra composizioni anomale del collegio giudicante, difetti di notifica, e due diverse richieste di astensione da parte del presidente del collegio, a causa di rapporti di conoscenza con l’imputato. Richieste incredibilmente rigettate dal presidente della Corte di Appello di Napoli. La giustizia è al collasso, questo è il punto.”
Siamo messi di fronte ad una ritenuta minaccia pronunciata in un aula di tribunale, e messa a verbale; che da lì, direttamente, viene trasmessa ad una Procura della Repubblica; dalla Procura, posta al giudizio di un altro Tribunale, secondo modi, tempi e ritmi su cui nessun soggetto al mondo, diverso da un magistrato, può mettere il naso: dopo sei anni dalla lettura della dichiarazione incriminata, arriva la sentenza di primo grado; quindi, seguendo gli stessi binari organizzativi (o disorganizzativi) per soli togati, giunge dinanzi ad un altro collegio composto di magistrati ma, questa volta, di Appello; dove vengono sollevate, per due volte, questioni sulla idoneità al giudizio di un magistrato, su cui ha deciso esclusivamente un altro magistrato.
Ebbene: nonostante tutto questo descriva una vicenda di adamantina purezza magistratuale (remore, od ostacoli avvocateschi o d’altra origine, siamo certi, li avremmo conosciuti dalla sua vindice bocca, se ci fossero stati), non solo la colpa è della “politica”, ma questa colpa sarebbe una parte di una maggior colpa: “…c’è anche una marginalizzazione del problema mafie”, perché “…la politica ha come unico obiettivo quello di costringere la cittadinanza a continue elezioni”; d’altra parte, anche “Il Mezzogiorno è completamente sparito dall’agenda, non esiste più”. Quindi, la chiusa meroliana, in crescendo:“ Viene voglia di stracciare la scheda elettorale”; tanto più che “non è la politica a controllare le cosche. Sono i cartelli dei boss a controllare la politica”.
Bene. Chiaro. Ma non c’è nessuna ingenuità. E’ tutto lucido. Il registro passional-depresso è solo un accorgimento retorico. E’ evidente il coordinamento con il “ci ha messo genuflessi”, riferito al Centro-sinistra (attuale maggioranza parlamentare), e consegnato stamani alle cronache dal dott. Piercamillo Davigo; come pure con il suo “…ai magistrati legano le mani” ; evidente, l’evocazione dell’indimenticato “è la politica il nerbo della potenza mafiosa”, di Ingroia&Scarpinato, (2003); e, parlando di “eccesso di elezioni”, risuona per lo meno precursore pure il loro “sospendere autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica… contro la volontà della stessa maggioranza”.
Poco fa ho scritto la parola “coraggio”. Può capitare di essere minacciati. Non solo nel Meridione d’Italia; ma diciamo che un certo tipo di minacce, qui da noi, non sono del tutto inconsuete. Dispiace sempre quando accade. Ma c’è un solo criterio sicuro, per stabilire se una o più minacce possano alimentare, oltre che l’umano dispiacere, anche una più meditata stima.
Per fissare questo criterio (fedele alla regola che è sempre bene tenere fuori della pagina i casi personali), mi avvarrò di un esempio illustre. Saviano, sempre ricorda di essersi alzato un bel giorno da una sedia, e di avere indicato alla pubblica riprovazione alcuni “malacarne”, presenti ad un’assemblea. Ciò posto, ecco l’esempio.
Dopo aver trascorso 15 anni fra galera e confino; dopo aver preso parte alla guerra partigiana, un uomo tornò in Sicilia; e, appena sbarcato, andò in un paese, Villalba, in provincia di Caltanissetta. Su due piedi, mise su un comizio, nella piazza principale. Parlava dal cassone di un camion. Era il 16 Settembre del 1944. Disse quel che doveva e sapeva dire su gabelloti e latifondo. Dal fondo della piazza, seduto, un vecchio, canuto e dall’aria monumentale, fumando il suo sigaro, osservava e ascoltava. Era Don Calogero Vizzini. Ad un certo punto, ruppe il silenzio che avvolgeva l’oratore, esclamando: “Non è vero! E’ falso. E’ falso”. Nemmeno un secondo dopo, una selva di colpi di pistola e bombe a mano diedero più cruento corpo a quella negazione. Ci furono “solo” quattordici feriti.
L’oratore, benché ferito ad una gamba, fortunatamente fu messo in salvo dai suoi compagni. Era Girolamo Li Causi.
Ah!, il criterio. Nacque povero, visse e morì povero.