Caro Direttore,
La Storia, solitamente, ci passa affianco senza che ci sia concesso di scorgerne chiaramente le sembianze, disabituati come siamo a distinguerne i tratti nella quotidiana melma del gossip da cui siamo investiti.
Questo è proprio quanto accaduto lo scorso venerdì quando, a seguito del teso incontro Trump-Merkel, sull’intero globo migliaia di “esperti” di politiche internazionali hanno preferito focalizzare l’attenzione sulle contrapposte idee di leadership personale incarnate dal Presidente e dalla Cancelliera e sulla secondaria questione simbolica della mancata stretta di mano fra i due, piuttosto che concentrarsi sulle varie implicazioni derivanti, in termini di prospettive geopolitiche, da ciò che è emerso dal vertice.
Perché, dunque, l’incontro bilaterale del 17 marzo riveste un’oggettiva portata storica?
Perché in tale occasione sono stati enunciati – con la nettezza propria di un vero manifesto strategico – i principii ispiratori della nuova politica estera della Casa Bianca, le linee-guida destinate a rivoluzionare il modo col quale l’America si rapporterà al resto del Mondo, in discontinuità col tradizionale approccio – fondato, per dirla alla Kissinger, sul bilanciamento fra equilibrio di potere e puro idealismo valoriale – costantemente promosso, ed imposto, dagli Stati Uniti durante questi settant’anni di leadership globale.
Volendo sistematizzare le dichiarazioni rese dal Presidente americano nel corso di tale storico vertice, le concezioni che nella visione di Washington dovranno animare un riassetto dei rapporti internazionali (fondato sulla pietra angolare del recupero delle prerogative dell’assoluta e illimitata sovranità statuale) sono, in estrema sintesi, due: equilibrio liberoscambista e bilateralismo negoziale.
EQUILIBRIO LIBEROSCAMBISTA
Durante la conferenza stampa, il Presidente ha dichiarato: “I’m a free trader, but I’m also a fair trader”.
Questo concetto è assolutamente essenziale in quella che già oggi potremmo definire “Dottrina Trump”: la Casa Bianca non si considera portatrice di alcun reale disegno di isolazionismo politico, ma pretende – oltre al concreto rispetto del già citato principio di reciprocità – l’impegno di tutti i Paesi a mantenere un certo livello di effettivo equilibrio nei rapporti commerciali (e quindi politico-economici) fra gli Stati, evitando di aggirare e alterare il libero gioco della concorrenza. Il riferimento è evidentemente alla Cina, che con le sue pratiche di dumping e col mancato sostegno alla crescita dei salari e dei consumi interni ha giocato un ruolo importante nella rapida e drammatica deindustrializzazione americana ed europea.
Ma il riferimento è anche alla Germania. Berlino, come sappiamo qui in Europa – soprattutto in Italia – ha fondato la sua ripresa economica post-riunificazione su discutibili politiche volte a sostenere l’export e ad ottenere un vantaggio competitivo mediante il congelamento dei salari reali (a fronte di un aumento di produttività) e attraverso la riduzione degli investimenti pubblici, fino a raggiungere l’impressionante surplus commerciale attuale: 253 miliardi di Euro nel solo 2016.
Un simile surplus persistente rappresenta, come insegna Keynes, una gravissima minaccia per la stessa sopravvivenza economica dei partner commerciali (soprattutto per le realtà produttive concorrenti che, come la nostra, si trovino a condividere con il Paese in condizione di surplus persistente l’appartenenza allo stesso regime di cambi fissi, qual è l’Eurozona).
Mentre da noi le anime belle ancora magnificano acriticamente quest’Unione Europea e la Moneta Unica, decantandone il ruolo di antidoto a guerre e conflitti, dall’altra parte dell’Oceano si è fatta strada un’idea: gli squilibri commerciali eccessivi, utilizzati da alcuni Paesi per stendere al tappeto i propri competitor devastandone il tessuto manifatturiero e condannandoli ad un’inesorabile desertificazione industriale, comportano (soprattutto nell’attuale contesto di globalizzazione e di finanziarizzazione dell’Economia), crescenti tensioni negli Stati e fra gli Stati.
Quindi, per evitare il divampare di tensioni interne e internazionali, bisogna tornare all’idea di equilibrio delle bilance commerciali e i Paesi che fondano il proprio – effimero – benessere sul surplus persistente devono modificare le loro politiche fiscali ed aumentare la spesa pubblica, in modo tale da incrementare la domanda interna stimolando una crescita delle importazioni di beni e di servizi.
In assenza di tali politiche responsabili da parte dei Paesi in persistente surplus commerciale eccessivo, gli altri Stati hanno il diritto e il dovere di riequilibrare la situazione dall’esterno con alcuni correttivi, ricorrendo a quegli strumenti dei quali dispongono per tutelare le proprie Imprese e i propri Lavoratori.
Viene da chiedersi: quale impostazione politica può, all’atto pratico, maggiormente preservare la Pace? Quella della Cancelliera tedesca, che in Europa ha portato intere Nazioni nel baratro della disperazione?
O quella inaugurata dal Presidente americano, che si fonda non già su un “protezionismo isolazionista”, quanto piuttosto su un principio che potremmo definire di “equilibrio liberoscambista”, volto a garantire la sopravvivenza di ognuno sulla base di semplici constatazioni di buon senso?
Francamente, nel rispondere a questa domanda, chi scrive queste righe non nutre dubbi eccessivi…
BILATERALISMO NEGOZIALE
Nel corso della tavola rotonda con i grandi businessmen dei due Paesi, il Presidente Usa ha dichiarato: “I believe that both countries will be stronger if we continue to deepen our bilateral cooperation”.
La frase, da leggersi alla luce della spinosa vicenda del TTIP, assume qui una valenza politica ben precisa: l’Amministrazione è aperta a partnerships con i Paesi europei, ma non tratterà con la Commissione UE.
Un messaggio forte e di sicuro impatto, al quale nel corso della conferenza stampa la Cancelliera tedesca, parlando del TTIP, ha poi replicato giocando sull’idea della bilateralità: “The EU (…) negotiates on behalf of the Member States (…) It would be then qualified as a bilateral agreement between the EU and the US”.
Ora, l’idea di bilateralismo negoziale propugnata dalla Casa Bianca appare fondata su due aspetti, ossia:
1) sulla ridefinizione del concetto stesso di legittimità del negoziato in sede internazionale, col ritorno della volontà popolare e del controllo diffuso al centro del dibattito pubblico.
Ciò rende di fatto impossibile proseguire con quelle pratiche della “diplomazia segreta” – per rievocare la famosa espressione del Presidente Wilson – che negli ultimi trent’anni, in America come in Europa, hanno caratterizzato con la loro tecnocratica opacità tutti i principali negoziati in materia commerciale fra gli Stati nonché fra i blocchi economici, fino a giungere alle sotterranee (e dunque antidemocratiche) trattative sul TTIP;
2) Sul recupero della cinica e pragmatica scienza geopolitica europea pre-wilsoniana, in uno scenario nel quale la natura competitiva dei rapporti fra i diversi Stati viene accettata in prospettiva hobbesiana, passando dal concetto di politiche di stabilimento dell’ordine a quello di politiche di governo del disordine sul piano dei rapporti internazionali.
Conseguenze del recupero di tale impostazione sono la rilevanza che l’effettivo rispetto del principio di reciprocità andrà ora a rivestire (farebbe bene a tenerlo a mente la Cina) e il disconoscimento delle organizzazioni permanenti sovranazionali (ONU, WTO, NATO, World Bank, NAFTA, Unione Europea) quali luoghi del negoziato internazionale, con conseguente rivalutazione del ruolo delle diplomazie nel dialogo bilaterale fra Stati che dovranno tornare a giocare in proprio su più tavoli (non disdegnando l’uso dei consessi periodici in formato ristretto – G7/G8 – quali “camere di compensazione”).
Dopo decenni di esaltazione degli organismi internazionali quali sedi naturali di trattative e di negoziati, lo spazio della contrattazione e del bargaining power fra le potenze torna ad essere il rapporto bilaterale, con tutto quello che ne conseguirà sia – in negativo – sotto il profilo dello squilibrio fra le parti coinvolte (con evidente perdita netta di potere negoziale per la parte più debole), sia – in senso invece positivo – in termini di un più ampio pluralismo nella rappresentazione degli interessi e di una maggiore aderenza alla naturale vocazione degli Stati al perseguimento di interessi peculiari e specifici (spesso concorrenti) spesso difficilmente rappresentabili in negoziazioni di gruppo.
UNA “DOTTRINA TRUMP”?
In conclusione, possiamo qui affermare che nel corso del vertice di venerdì scorso sia stata esplicitata una vera e propria “Dottrina Trump”? Sarebbe senz’altro eccessivo affermarlo, soprattutto se pensiamo ai lunghi percorsi intellettuali di elaborazione strategica dai quali, in altre fasi della Storia americana, sono successivamente scaturite le più note dottrine presidenziali: basti pensare ai tempi di maturazione della Dottrina Truman a seguito del famoso “Lungo Telegramma” di George Kennan per comprendere quanto azzardati ed non plausibili possano sembrare certi paragoni.
Tuttavia, l’incontro Trump-Merkel merita di essere trattato in una seria prospettiva storico-analitica e non con la superficiale sicumera con cui, nel Mondo, moltissimi noti e meno noti accademici e specialisti l’hanno liquidato, trasformandolo in un’ennesima occasione per ridicolizzare il Presidente americano e derubricando il vertice quasi ad un fatto di gossip.