Qualche giorno fa, nell’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Milano, si è tenuto un convegno, in occasione dei 25 anni dall’avvio di Mani Pulite. Si è generalmente osservato che l’aula era quasi vuota, non più di una ventina di persone presenti. Fra gli oratori, Piercamillo Davigo e Antonio Di Pietro: curriculum e qualifiche, noti. Questo vuoto è stato da taluni interpretato come il segno di un abbandono ormai compiuto, di un decadimento sicuro: l’indagine come milizia, il processo come rivoluzione, raccoglierebbero ormai indifferenza. In realtà, rassegnazione: giacché la corruzione sarebbe ormai così vasta e multiforme, così impotente l’anelito di giustizia, che sarebbe meglio riguardare quel vuoto come buio, nelle cui profondità rilucono solo poche faville, eroiche e indomite. “L’inchiesta è finita, Tangentopoli, no”, ha chiosato l’inossidabile dott. Davigo. Questa interpretazione del “vuoto”, liturgica, un po’ querula, è consueta, e non stupisce. Ma è priva di fondamento.
Quell’aula era vuota non perché il “verbo legalistico” non fa più proseliti, ma, al contrario, perché ne ha fatti in tale misura da sfuggire all’occhio: 20 milioni di persone non entrano in nessuna aula di giustizia. Non occorreva celebrare il seme, perché ormai c’è l’albero. Che albero è? E’ una malapianta.

La sua malignità non viene dal fatto che non esistano fatti di corruzione, e, in generale, di illecita condotta politico-amministrativa; e che, pertanto, quanti invocano controlli e pene, lo facciano per il gusto di mentire. Essa risiede nell’avere tratto dal “particolare”, esistente, un “generale”, invece inesistente; nell’aver voluto e nel voler sottoporre ad accertamento giurisdizione penale non il singolo, ma “il sistema”.
Il prof. Nino Galloni, economista, che da lunga pezza ha assunto posizioni libere (più o meno condivisibili) sull’Euro, sulle politiche fiscali e monetarie nel contesto dell’Unione, ma sempre mantenendo rigore di analisi e rettitudine di giudizio, è stato chiaro nel precisare questa elementare verità: confondere, quanto è “corrotto” e quanto è solo “irregolare”, semplicemente, impedisce all’economia di esistere (nello scorso Settembre, si era vociferato che Galloni potesse diventare Assessore al Bilancio nella Giunta Raggi: ovviamente, è bastato che si mostrasse fermo sulle Olimpiadi, che ribadisse il suo scetticismo, diciamo, sulla “decrescita felice”, perché il vade retro calasse sullo studioso).
Ma ad ogni pianta serve un giardiniere; ad ogni giardiniere, il concime. Solerti e flatulenti tromboni presero a scribacchiare all’ombra del “Novecento”: riecheggiando certo biologismo selvaggio e primitivo, certa furiosa aberrazione ideologica, e imbellettandoli di dottrina, di accorata passione civile. Così, abbiamo cominciato a leggere, sin da quei primi giorni, e sempre più puntualmente, di “antropologicamente diversi”, di “Italia peggiore, e Italia migliore”, di “difesa nel processo e non dal processo”, con cui si volle munire di veste istituzionale la superstizione, la forza fanatica, la pulsione razzistica, che si fecero aggrumare intorno al miraggio dei pochi giusti contro i molti ingiusti.
Non si doveva perseguire una più o meno estesa trama di complici, ma un asserito e fantomatico carattere nazionale infetto.
Il Processo penale è ordinato sulla persona, non sui “fenomeni”; da questa malignità “ideativa”, è derivata la malignità strumentale, o “operativa”: la distruzione, metodica, incessante, meticolosa, sadica, del congegno processuale.
Se alterare un appalto incide negativamente su un interesse pubblico, alterare un’istituzione fondamentale, come il Processo Penale, è letale per ogni interesse pubblico; è letale per la democrazia: non solo in Italia, sul crinale tra il XX e il XXI secolo, ma ovunque, ed in ogni epoca.

Ricordiamo, a compendio: il giudizio può solo “inseguire” le indagini, cosiddette preliminari, e la “presunzione di colpevolezza” che esse implicano (come ormai sappiamo da fonte autorevole): non raramente, con il corredo di misure cautelari, personali e reali in tutto o in parte illegittime; “l’inseguimento”, a sua volta, aggrava la sua stessa vanità: o perché non può che confermare una colpevolezza già acquisita, aggiungendovi semmai un supplemento impropriamente ma efficacemente afflittivo, costituito dalla durata pluriennale; o perché, se il dibattimento/inseguimento (magari dopo tre, quattro, cinque, sei o sette gradi di giudizio, in alcuni noti casi) trova il modo di assolvere, arriva, per quelle stesse ragioni, a babbo morto e sepolto.
A qualcuno, benché ora le rete muggisca, benché ora l’insulto sia tornato ad assumere simbolicamente valore statutario e fondativo dell’azione politica, benché certi stilemi e certe movenze “novecentesche” siano ormai “social”, tuttavia potrà sembrare ugualmente eccessivo richiamare le ombre peggiori del secolo scorso. Eccessivo, affermare che quell’aula del Palazzo di Giustizia di Milano fosse vuota, in quanto, per dir così, il lavoro è stato fatto; il seme, germogliato.
Ricordo, brevemente, una proposizione capitale di Mani Pulite: venne formulata dal Procuratore di Milano del tempo, Francesco Saverio Borrelli, alla fine del 1995, su Micromega: “Se si creano situazioni di emergenza nelle quali diviene indispensabile comprimere i diritti individuali, per ripristinare l’ordinamento giuridico, allora, nell’interesse comune, sono favorevole alle restrizioni di diritti individuali”.
Hannah Arendt, a proposito della relazione fragile fra mezzi e scopo, rileva che l’apparente banalità di frasi come, ad es. “non si può fare la frittata senza rompere le uova”, tipicamente nasconde una degenerazione tirannica. Scriveva che una sola proposizione gli pareva alternativa a quella “falsa banalità”: non a caso traendola da un processo penale. A margine dell’affaire Dreyfus (l’ufficiale ebreo dell’esercito francese accusato di spionaggio in favore della Germania, condannato, e poi, in revisione, assolto), all’origine, secondo la pensatrice, delle involuzioni razzistiche che diramarono nei decenni seguenti (“antropologiche”, scriverebbero i tromboni di complemento), Clemanceau disse: “gli affari di uno, sono gli affari di tutti”. E concludeva Arendt: “Il punto cruciale è …se la legge debba giudicare i buoni e i cattivi con lo stesso metro”; perché “…il mancato rispetto della legge (o, in questo caso, la messa a rischio delle libertà civili per incastrare un cattivo) è sempre l’inizio della fine per le libertà civili di tutti” (da “Gli ex comunisti”, in The Commonweal, 20 marzo 1953).
Quell’aula vuota, non è un crepuscolo: è un trionfo; è un lusso che ci si può permettere, proprio perché quello che doveva essere fatto, per svuotare di senso il Processo, è stato fatto; sicché, ad inseguire le mosche fra i banchi, vada chi vuole: questo è il cinico ma veritiero “ragionamento”. Chi, 25 anni fa, giustamente, si opponeva dentro un’aula di giustizia, oggi deve farlo fuori: altrimenti, mostra di non aver capito nulla di quello che è successo, e di quello che, probabilmente, deve ancora accadere.