Dopo le elezioni primarie nello stato di New York di martedì la mappa con i risultati elettorali nelle varie contee che il New York Times pubblica alla fine di ogni ballottaggio mostrava, nella sezione democratica, un mare di verde (il colore assegnato al senatore del Vermont Bernie Sanders) contro lo striminzito blu di Hillary Clinton. Ma le impressioni puramente cromatiche ingannano. E così anche quelle numeriche.
Ci sono sessantadue contee nello stato di New York. Di queste, dodici hanno votato in maggioranza per la Clinton e cinquanta per Sanders. La differenza naturalmente sta tutta nella popolazione relativa: le cinque contee che costituiscono l’area metropolitana di New York City hanno, proprio in virtù di questa popolazione, un peso elettorale pari a quello di trenta o quaranta delle contee rurali della parte settentrionale dello stato e si sono pronunciate tutte in favore della ex First Lady. Lo stesso è accaduto per le zone ad alta densità di popolazione attigue all’area metropolitana (Long Island e Westchester County) e per gli altri principali centri urbani dello stato (Rochester, Buffalo, Syracuse). Una situazione quindi invertita rispetto ai trend che si verificano di solito nel corso delle primarie democratiche dove il carattere ideologico moderato e centrista della Clinton tende a riscuotere i favori delle aree più rurali e suburbane piuttosto che di quelle più progressiste dei centri urbani che sono, per lo più, appannaggio dei suoi rivali più liberal.
La verità, a questo punto, è che per prevedere i risultati delle consultazioni primarie democratiche è sufficiente verificare quali siano le regole elettorali dello stato in cui si va alle urne: in quegli stati che utilizzano i dibattiti aperti noti come caucuses Bernie Sanders ha quasi sempre prevalso mentre in quelli che si affidano al sistema più semplice e diretto delle primaries, come è stato a New York, finora la Clinton ne è sempre uscita vincitrice.
Ma c’è un altro fattore che ha determinato il trionfo dell’ex Segretario di Stato e anche questo ha a che fare con le norme che regolano il sistema elettorale statale. Quella di New York infatti è un’elezione “chiusa” dove, cioè, possono votare solo gli iscritti ai due maggiori partiti politici. Questo significa che ben tre milioni di indipendenti (come il sottoscritto) e di “non affiliati” che non si identificano né con il Partito Democratico né con quello Repubblicano, non hanno avuto diritto al voto. Stando alle dinamiche che si sono verificate in precedenza, se questi milioni di elettori avessero avuto l’opportunità di esprimere la loro preferenza, i risultati avrebbero potuto essere molto diversi visto lo scarto di voti tra i due candidati che è stato solo di circa 285,000.
Dalla sconfitta del senatore del Vermont infine, emerge anche il carattere ancora un po’ effimero della “Sanders Revolution”, un movimento che riesce ad attrarre folle oceaniche ai comizi e agli incontri di campagna elettorale; che riesce persino a sollecitare massicci finanziamenti costituiti quasi interamente da piccole donazioni provenienti dalla base dei sostenitori ma che, malgrado questo, stenta a tradurre tutta questa energia ed entusiasmo in un’affluenza alle urne che coinvolga anche altre fasce di età oltre a quella dei votanti compresi tra i 18 e i 29 anni, tra i quali Sanders si è imposto con il 67% delle preferenze ma che, rispetto al totale degli aventi diritto, costituisce ancora solo una minoranza (il 17%) di coloro che si sono recati alle urne.
Questa “Sanders Revolution” quindi, potrebbe magari apparire più dirompente perché molto più visibile, celebratoria ed inattesa alla vigilia.Nello stesso tempo però, il bacino elettorale dal quale Hillary raccoglie il suo consenso potrà essere magari più discreto e riservato ma resta una massa le cui dimensioni ne fanno una forza irresistibile.
In campo repubblicano i risultati non hanno riservato alcuna sorpresa. L’altro dei tre “newyorchesi” in lizza, Donald Trump, si è imposto di larga misura conquistando oltre il 65% dei voti e lasciando al palo sia l’ex governatore dell’Ohio, John Kasich che il suo principale rivale Ted Cruz, completamente snobbato dai newyorchesi dopo i commenti negativi espressi qualche tempo fa sul clima culturale prevalente nello stato e nella città in particolare.
Se la vittoria di Trump, proprio come quella della Clinton, era facilmente prevedibile, essa non è per questo meno clamorosa in quanto costituisce un sostanziale passo avanti nel cammino del magnate verso la nomina finale.La differenza con la situazione della rivale democratica ovviamente sta nel fatto che mentre i vertici istituzionali del Partito Democratico hanno accolto con sollievo l’affermazione della ex First Lady, i responsabili nazionali del GOP invece continuano ad osservare con orrore impotente l’inesorabile avanzata di Trump verso la nomina e che lascia prevedere una drammatica resa dei conti alla convention di questa estate a Cleveland.
Anche Bernie Sanders, l’altro “ribelle” di parte democratica, potrebbe svolgere un ruolo di “guastafeste” nel caso in cui, come appare sempre più probabile, la nomina finale vada ad Hillary Clinton. I giovani sostenitori del senatore del Vermont infatti, sembrano animati da un marcato idealismo massimalista che potrebbe spingerli all’astensione piuttosto che scendere a compromessi con il centrismo istituzionale del “tutto-come-prima” rappresentato, nei loro occhi, da Hillary Clinton.
Di fronte a questa eventualità, sarà interessante osservare quali indicazioni di voto uno sconfitto Bernie Sanders riuscirà ad impartire ai suoi sostenitori per ricucire gli strappi con la rivale e ristabilire quella coesione interna al partito necessaria per arrivare uniti alla sfida con i veri avversari repubblicani.
Nel caso invece che questa riconciliazione non avvenga, Bernie Sanders rischia di trasformarsi, per il Partito Democratico, in un altro Ralph Nader.