Il giorno della verità è arrivato. Il Super Tuesday ovvero il martedì fatidico in cui ben dodici stati (e un territorio d’Oltremare) si pronunciano sui candidati ancora in gara nei rispettivi partiti da designare come contendenti finali per la corsa alla Casa Bianca.
Con l’assegnazione di ben 1460 delegati tra i due partiti (865 per i democratici e 595 per i repubblicani) il Super Tuesday rappresenta una tappa fondamentale del processo elettorale in quanto aggiudica il 25% dei voti totali in ambito democratico e il 30% di quelli repubblicani.
L’unico motivo per cui i risultati di questa giornata non rappresentano l’ultima parola nella decisione finale sui candidati è dovuto al fatto che, tra gli stati più popolosi in grado di assegnare un sostanzioso numero di delegati, solo il Texas rientra nel gruppone di ieri. Molti altri (come la Florida, l’Ohio e l’Illinois) si pronunceranno il 15 marzo.
Un altro importante fattore da tenere a mente è che i delegati del Super Tuesday sono assegnati in base ad un sistema proporzionale che premia anche il secondo o il terzo classificato mentre le consultazioni successive sono strutturate in base al criterio del “vincitore piglia-tutto”.
Inutile dire che ormai da giorni, gli occhi dell’America sono puntati sui due favoriti: Donald Trump e Hillary Clinton i quali, forti del vantaggio accumulato finora sono arrivati alla vigilia del voto con la possibilità teorica di porre un sigillo, almeno psicologico sull’inevitabilità della loro nomina. La certezza matematica di una nomination è rimandata ancora per un po’ ma le attese dell’inizio sono state mantenute e i due favoriti si sono affermati senza problemi in quegli stati dove le proiezioni della vigilia li davano per vincenti. Se da una parte il partito e l’elettorato democratico si sono stretti intorno alla ex First Lady il rivale della Clinton, il senatore del Vermont Bernie Sanders, continua a poter contare su un gran numero di sostenitori sia tra il popolo progressista che tra i vertici del Partito Democratico.
Lo stesso non è avvenuto tra le fila del GOP dove i toni della diatriba tra i tre maggiori contendenti, Donald Trump, Ted Cruz e Marco Rubio, hanno toccato il fondo del decoro politico nel corso dell’ultimo dibattito televisivo. Toni che hanno raggiunto tali livelli di trivialità e di volgarità forse a causa dell’esigenza da parte di Ted Cruz e (soprattutto) Marco Rubio, di contrastare il capolista Trump con le stesse armi retoriche da lui utilizzate per deridere o ridicolizzare i suoi avversari.
Ma se gli attacchi senza esclusione di colpi sono da prevedere tra candidati che “sgomitano” per assicurarsi il premio finale, questo tuttavia è il primo ciclo elettorale in cui stiamo assistendo all’ascesa meteorica di un candidato che, paradossalmente, si è anche guadagnato l’ostilità aperta dei dirigenti del suo stesso partito. I vertici del GOP hanno assunto nei confronti della candidatura di Donald Trump lo stesso atteggiamento che hanno verso la questione dei cambiamenti climatici: tutti erano consapevoli del problema; tutti hanno scelto intenzionalmente di negarlo e ora sono nei guai perché non sanno come fermarlo.
Ad aggiungere la beffa al danno, nel corso di questa campagna elettorale Trump sta approfittando di alcuni cambiamenti nell’organizzazione delle primarie che gli stessi vertici del partito hanno attuato dopo le scorse presidenziali per rendere più spedito l’andamento di questa fase elettorale e consentire ai favoriti di raggiungere la certezza matematica della nomination dopo poche tornate. Uno di questi cambiamenti, che proprio durante questo Supertuesday ha consentito al magnate newyorchese di affermarsi con ampi margini di vantaggio, è stato quello di eliminare da questa consultazione stati del West come il Wyoming e l’Idaho e sostituirli con stati del profondo Sud che portano alle urne un elettorato etnicamente bianco, estremamente conservatore e culturalmente recalcitrante al multiculturalismo. Un bacino elettorale quindi sensibile alla retorica demagogica e populista di Trump che non ha mancato di approfittare dell’occasione facendo man bassa dei delegati di questa regione.
I risultati ottenuti da Donald Trump negli stati del Sud sono particolarmente rilevanti perché lunedì scorso i notiziari americani hanno riportato che lo stesso Trump, dopo aver ricevuto una pubblica dichiarazione di sostegno da David Duke, leader della famigerata organizzazione razzista Ku Klux Klan, ha rifiutato, in un primo momento, di prendere le distanze da Duke facendo finta di non sapere chi fosse. Di fronte a questo sfacciato e cinico esempio di opportunismo, il commentariato politico americano ha ipotizzato la possibilità che il miliardario newyorchese potesse subire un contraccolpo negativo nei suoi indici di gradimento, cosa che invece non si è verificata e che la dice lunga sulla qualità culturale e sullo spessore etico del bacino elettorale dal quale il magnate continua ad attingere i propri voti.
A dispetto dell’avventatezza delle sue citazioni di Mussolini (“Meglio vivere un giorno da leoni che cento anni da pecora”) e delle dichiarazioni sul KKK quindi, le previsioni sull’affermazione di Trump si sono puntualmente verificate con l’eccezione del Texas, stato originario del senatore Ted Cruz che ha vinto, come previsto, la sfida casalinga riuscendo ad estendere il suo successo anche al vicino stato dell’Oklahoma e a quello lontano dell’Alaska, uniche note stonate in una notte molto positiva per Trump.
Il video del discorso di Trump di martedì notte>>
Prima affermazione, anche per Marco Rubio che, dopo il ritiro di Jeb Bush, ha assunto il ruolo di nuovo campione della corrente “moderata e istituzionale” del partito e che forse deve alla rinnovata aggressività dei suoi scontri retorici con Trump, questa prima sparuta vittoria in Minnesota. Ancora troppo poco, soprattutto considerando che, nella maggior parte delle altre consultazioni, non è riuscito ad andare oltre il terzo posto.
Anche in campo democratico i risultati sono stati più o meno in linea con le aspettative: Hillary Clinton si è affermata facilmente negli stati del Sud dove ha potuto contare sul previsto sostegno delle minoranze afro-americane mentre Bernie Sanders l’ha spuntata nel suo stato del Vermont, in Oklahoma in Colorado e in Minnesota. Unica vera nota stonata della serata per il senatore rispetto alle attese, è stata la mancata vittoria in Massachusetts, uno stato liberal del Nordest confinante con il suo Vermont e dove Sanders si era detto ottimista. Malgrado il fatto che la marcia di Hillary Clinton verso la nomina finale continui inesorabile dopo questo Super Tuesday, gli obiettivi di lungo termine di Sanders sembrano addirittura trascendere la dimensione elettorale. Il senatore infatti ha detto, subito dopo il voto in Vermont, di voler innescare mutamenti profondi nelle dinamiche politiche americane. Dal podio dal quale ha ringraziato i suoi elettori, Sanders ha dichiarato che: “Queste elezioni non riguardano solo la scelta di un presidente ma una più profonda trasformazione dell’America”. Seppure la campagna di Bernie Sanders dovesse esaurirsi dopo le consultazioni delle prossime settimane, il senatore socialista ha già lasciato un’impronta indelebile sulla scena politica americana e ha lanciato un chiaro messaggio al suo partito sulla necessità di riformare le fondamenta stesse del sistema America.
Il discorso di Hillary Clinton dopo la diffusione dei risultati>>