Mario Cuomo, l’ex governatore italo-americano dello stato di New York recentemente scomparso, è anche l’autore di una frase divenuta famosa nel mondo della politica americana: “In campagna elettorale si parla in poesia ma, una volta al governo, si passa alla prosa”. Il significato sottinteso dell’espressione naturalmente è che, quando si cerca di farsi eleggere, non si esita a far ricorso all’iperbole retorica e a promettere all’elettorato tutto e il contrario di tutto.
A nomina avvenuta invece, le realtà politiche del confronto, della mediazione e del compromesso tendono inevitabilmente a ridimensionare le aspirazioni iniziali dei vari candidati e i propositi dichiarati in campagna elettorale di solito cedono il passo ad atteggiamenti più moderati e pragmatici. Nel contesto politico degli Stati Uniti, questa dicotomia è ancora più pronunciata perché il processo elettorale americano prevede una doppia tornata costituita da una consultazione primaria in ogni singolo stato in cui i candidati si confrontano con avversari dello stesso partito. Dopo aver conquistato la nomina del proprio schieramento poi, i politici prescelti sfidano il candidato del partito opposto nelle elezioni generali.
Se durante la campagna elettorale generale quindi il ricorso “all’iperbole poetica” diventa intenso, nel corso delle primarie esso raggiunge livelli straordinari soprattutto in un periodo come questo in cui uno dei due partiti ha intrapreso la sua corsa alla Casa Bianca con un vero e proprio plotone iniziale di ben diciassette candidati dove, per forza di cose, l’esigenza di farsi notare nel gruppo (soprattutto in un gruppo capeggiato da un personaggio come Donald Trump) ha spinto i candidati stessi a fare dichiarazioni e a prendere posizioni estremamente controverse o addirittura incendiarie.
Contrariamente a quanto anticipato, tra tutti questi pretendenti repubblicani quelli più “tradizionali” (Jeb Bush, Scott Walker…), inizialmente considerati come favoriti, sono stati silurati o lasciati al palo dalle preferenze di un elettorato che ormai, stanco delle promesse dei ranghi “istituzionali” del partito, si è schierato senza indugio con il populismo demagogico ed “estremista” di candidati come Trump, Cruz e Carson.
Un fenomeno simile si sta verificando anche in ambito democratico dove la super-favorita ma “istituzionale” Hillary Clinton ha iniziato a perdere terreno nei sondaggi rispetto al suo rivale “rivoluzionario” Bernie Sanders. Anche in questo caso, l’ascesa di Sanders rappresenta un’aspirazione verso un populismo di sinistra che vede nella candidatura del senatore del Vermont l’occasione per rimediare a quello che in molti considerano il problema principale del paese: l’ingerenza sul processo politico dei grandi interessi industriali e finanziari che ha trasformato la democrazia americana in un’oligarchia economica.
Per quanto, la candidatura di Bernie Sanders sia diventata una prospettiva attraente per la sinistra proprio in virtù di questa deriva plutocratica, le sue possibilità di successo finale sono sempre sembrate fievoli sia per la popolarità della Clinton, sia per il fervore militante dello stesso Sanders che non ha mai esitato ad auto-definirsi un “socialista” (un termine che nell’immaginario collettivo americano equivale, più o meno, a quello di “appestato”) e che parla nei suoi comizi, della necessità di una “rivoluzione” che rompa con gli schemi della politica tradizionale. Queste caratteristiche pongono Sanders a sinistra del baricentro ideologico dell’America e, come tale, lo hanno relegato inizialmente ad un ruolo secondario che lo mostrava virtualmente inelegibile nelle votazioni generali.
Ma l’avvento di Donald Trump e Ted Cruz come possibili rivali repubblicani, all’improvviso, ha reso la nomina del senatore del Vermont più verosimile perché la possibile affermazione a novembre di un candidato “estremista” di destra rende la prospettiva di un “estremista” di sinistra meno impraticabile. In America il massimalismo politico non l’ha mai spuntata nel confronto in sede elettorale con il centrismo moderato ma se queste elezioni si dovessero trasformare effettivamente in una scelta tra populismi di destra e sinistra, ecco che questa situazione potrebbe essere sovvertita.
Inutile dire che l’ascesa dei populisti, ha allarmato i ranghi moderati e istituzionali sia del Partito Democratico che di quello Repubblicano. Nel GOP, il candidato di centro Jeb Bush ha ricevuto un’impressionante sostegno finanziario da parte dei “Grandi Elettori” conservatori (i grandi interessi industriali e finanziari del paese) ma l’ex governatore della Florida continua a languire nei sondaggi come, d’altronde, tutti gli altri candidati con effettive esperienze di governo: dagli ex governatori dell’Ohio e dell’Arkansas, John Kasich a Mike Huckabee a quello del New Jersey, Chris Christie.
L’ascesa dei “ribelli” Trump, Cruz e Carson ha scosso i tradizionali custodi dell’ortodossia ideologica del GOP al punto da indurre National Review, una delle più autorevoli riviste di Destra a mettere assieme una “Santa Alleanza” di illustri conservatori per denunciare le credenziali presidenziali del capolista Donald Trump ritraendo il magnate newyorchese come un buffone megalomane senza alcuna competenza politica, un’accusa ironicamente confermata dall’appoggio ricevuto dallo stesso Trump, proprio in questi giorni, da parte di un’altra “ribelle” della politica americana di destra, l’ex candidata alla vice-presidenza ed esponente di spicco della “corrente psichiatrica” del Partito Repubblicano, Sarah Palin.
Per quanto in campo democratico questo fenomeno di polarizzazione e di conflitto interno sia meno estremo, Hillary Clinton ha iniziato questa stagione elettorale come super-favorita ma, pur restando per ora in testa ai sondaggi nazionali, nelle prime due consultazioni statali, in Iowa e New Hampshire, il suo vantaggio su Bernie Sanders si è vistosamente assottigliato al punto da destare le preoccupazioni dei responsabili del suo entourage.
Ma l’ex Segretario di Stato ha ancora, dalla sua parte, importanti fattori che risulteranno decisivi come una maggiore riconoscibilità tra l’opinione pubblica, il sostegno delle minoranze del paese, l’appoggio dell’elettorato femminile e l’esperienza in ambito internazionale che, in questo periodo di timori legati all’immigrazione incontrollata e al terrorismo, giocherà un ruolo centrale nelle preferenze di voto soprattutto contro un rivale piuttosto “monotematico” come Bernie Sanders.
Come se tutto questo non bastasse, questa polarizzazione verso gli estremi della politica presidenziale potrebbe diventare l’occasione per un’ulteriore sorpresa: la discesa in campo di un vero e proprio candidato centrista: l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg. Una possibile candidatura di Bloomberg alla guida di un terzo schieramento avrebbe un effetto enorme sugli equilibri elettorali procurandogli contemporaneamente le antipatie della sinistra per i suoi legami con Wall Street e quelle della destra per il suo impegno contro l’incontrollata disponibilità di armi da fuoco. Se i due maggiori partiti dovessero nominare due candidati “estremisti” come Trump e Sanders tuttavia, Bloomberg potrebbe raccogliere il consenso di quella considerevole fetta di elettorato di centro che non si riconosce in nessuno dei due e realizzare il vecchio detto secondo il quale tra i due litiganti, il terzo gode.
Discussion about this post