Sono stati pubblicati finalmente, con qualche ritardo, i dati sui Conti Pubblici Territoriali relativi al 2013 (d’ora in poi, CPT). Cosa sono questi dati CPT? Sono lo “spacchettamento” delle entrate e delle uscite pubbliche per categorie economiche e per Regione. È un problema piuttosto complicato, quello di regionalizzare la finanza pubblica. Ma è ugualmente una cosa importantissima, per rispondere al quesito: chi mantiene chi?
I dati sono in un link un po’ “ammucciato” (nascosto, per i non siciliani). Ho dovuto scrivere da docente universitario al Ministero per ottenerlo. Per ragioni misteriose il suo accesso non è immediato per il cittadino. Il Dipartimento che si occupa di questo lavoro è riuscito in qualche modo a ripartire bene le spese, ma non le entrate. Per evitare che sembrasse che tutta la spesa pubblica fosse da attribuire al Lazio, le spese centrali sono ripartite, secondo vari algoritmi, tra le varie Regioni, e così le spese all’estero. L’operazione è talvolta di dubbia efficacia. Forse sarebbe meglio lasciare alcune spese centrali non ripartite. Che senso ha, ad esempio, dire che una quota degli interessi passivi dello Stato italiano sono attribuiti alla Sicilia? Che senso ha, quando lo Stato – come è noto – per la Sicilia non spende quasi nulla? Ma tant’è…
Invece le entrate sono lasciate nel luogo di residenza del soggetto passivo e non in quello in cui si forma il presupposto d’imposta. Questo favorisce indubbiamente le Regioni dove hanno sede le imprese maggiori (il Centro-Nord) alle quali è attribuita anche l’IVA sui consumi al Mezzogiorno e quelle in cui hanno sede le maggiori imprese pubbliche e private (Lombardia e Lazio) alle quali è attribuito pure il gettito sul reddito maturato nel resto del Paese. Ma tant’è… Vediamo lo stesso cosa dicono questi dati aggiornati.
Il dato “grezzo” dice che la Sicilia produce circa 46 miliardi di entrate e 56 miliardi di spese. Dice quindi che la Sicilia è un peso per il resto del Paese, per 10 miliardi di Euro l’anno circa. In sé non ci sarebbe nulla di male, posto che in un Paese normale le redistribuzioni dai più ricchi ai più poveri sono la norma assoluta (tranne che nell’UE, dove sono vietate). Ma, con più attenzione, vediamo che le cose stanno in modo molto diverso.
Infatti da questo dato grezzo si deve depurare intanto il comparto previdenziale. Come abbiamo detto altre volte, i debiti previdenziali sono dell’ente che ne ha percepito i contributi. Se la Sicilia dovesse farsi carico delle proprie pensioni, INPS, INAIL e altri enti previdenziali/assistenziali dovrebbero prima riversarle il montante contributivo di tutti i contributi percepiti nei decenni (centinaia di miliardi, va bene, come dire impossibile…). Depurando il dato grezzo dai dati previdenziali, si arriva a 34,5 miliardi di entrate e 36,5 di spese: è ancora deficit, ma di poco. Andando a vedere ancor più da vicino le “spese”, si scopre che queste nascondono molte spese dello Stato centrale che nulla hanno a che vedere con la Sicilia (missioni militari all’estero, interessi sul debito pubblico statale, costo degli organi costituzionali, spese non meglio ripartibili, etc.). Con questo “maquillage” contabile, le spese del burosauro romano, di cui nulla o quasi a noi compete, vengono nascoste e spalmate sulle incolpevoli Regioni.
Altre “spese fittizie” si nascondono tra le spese in conto capitale: lo Stato spalma sulle Regioni investimenti azionari e concessioni di crediti che non hanno sede in Sicilia. In realtà le spese in conto capitale “vere”, spese realmente in Sicilia, sono circa la metà di quelle rappresentate nei CPT.
Depurando le spese da quelle fittizie (cioè le “romane spalmate” sulle altre Regioni) si arriva a 34,5 miliardi di entrate “riscosse” in Sicilia contro 27,3 miliardi di spese. Cioè abbiamo una ‘macchina’ pubblica che fa sparire ogni anno dalla Sicilia circa sette miliardi di Euro (quasi il 10 % del PIL!). Aggiungiamo infine che le entrate sono sottovalutate per la mancata considerazione delle entrate il cui presupposto si forma in Sicilia ed è riscosso altrove, di difficile quantificazione, ma nell’ordine di alcuni miliardi di euro. Il conto del depauperamento sistematico di 10 miliardi l’anno ai danni della Sicilia verrebbe dunque confermato da questi dati.
Facciamo però un’analisi più attenta. Ho fatto tre “simulazioni”. La prima, più che una simulazione, è una fotografia dell’esistente. Ho sommato tra loro amministrazioni regionali e locali, nell’ipotesi che Regione, Comuni ed enti da queste controllate (Province, enti regionali, etc.) costituiscano un’unica grande azienda pubblica consolidata siciliana; dall’altro ho considerato lo Stato e le sue propaggini nell’Isola. Insomma la prima ipotesi è verificare entrate e spese di Regione + Comuni nell’ordinamento vigente.
La seconda ipotesi è quella di verificare, a dati fermi, entrate e spese di Regione + Comuni in caso di applicazione integrale dello Statuto. Dico “a dati fermi”, perché in caso di attuazione integrale dello Statuto l’economia siciliana esploderebbe. Le entrate tributarie non potrebbero essere le stesse di quelle odierne con il 60 % di disoccupazione giovanile e senza fiscalità di vantaggio. Ma io sono prudente. Potrei ipotizzare un + 5 % di PIL e di gettito tributario, ma sono prudente, non lo faccio. Gioco a bocce ferme.
La terza ipotesi è quella della piena indipendenza della Sicilia. Sempre a bocce ferme, ciò che quasi non ha senso. Ma è meglio fare previsioni prudenti, non si sa mai.
Siano consentite due parole sul metodo, e a chi danno fastidio le salti. Nell’ipotesi 1 non faccio altro che leggere con attenzione i dati appena pubblicati. Nell’ipotesi 2 ho ipotizzato: a) passaggio di tutto il demanio e patrimonio alla Regione, e quindi di tutte le entrate di diritto privato; b) passaggio alla Regione di tutto il gettito di tutti i tributi, con l’esclusione delle imposte di produzione e delle entrate da giochi e scommesse; c) stima, del tutto prudenziale, di + 3 miliardi di entrate per effetto dell’attuazione dell’art. 37 (attribuzione alla Sicilia di tutti i tributi maturati in Sicilia e riscossi altrove); d) azzeramento di tutti i trasferimenti statali verso Regione e Comuni; e) aggiunta di un Fondo di Solidarietà Nazionale calcolato come previsto dall’art. 38, fatto in proporzione al gap tra il reddito medio dei lavoratori siciliani rispetto a quelli statali; f) attribuzione alla Regione di tutte le spese, con l’eccezione di quelle relative alla difesa e all’assistenza (la previdenza resta del tutto fuori da questi conti, come detto sopra); g) attribuzione alla Sicilia di una compartecipazione sui tributi erariali residui (produzione + scommesse) in modo da garantire la copertura delle spese di competenza statale (giustizia e sicurezza, essenzialmente); h) attribuzione a carico della Sicilia di tutte le spese in conto capitale.
Nell’ipotesi 3, cioè di indipendenza piena, rispetto alla 2, facciamo le seguenti ultime ipotesi: a) attribuzione alla Sicilia anche delle spese di difesa, assistenza, una quota di spese generali (per dotarsi di esteri, etc.); b) stralcio dalle entrate in conto capitale del Fondo di Solidarietà Nazionale; c) attribuzione integrale di tutte le entrate tributarie allo Stato di Sicilia. Anche in questa ipotesi le entrate da contribuzione previdenziale e le spese per pensioni restano fuori: non risulta che l’INPS abbia ricusato le pensioni dei residenti in Eritrea e Somalia dopo l’indipendenza di quei Paesi, né che abbia attribuito alle ex colonie una quota del debito pubblico dello Stato italiano. L’unica “carognata” è stata quella di non rivalutare le pensioni degli ascari (fino a qualche anno fa, percepivano poche migliaia di lire al mese, insomma praticamente pensioni da anteguerra).
Ci sono varie approssimazioni e dati di dettaglio non disponibili, ma l’ordine di grandezza è quello. Ebbene, fatte queste ipotesi, scopriamo che i conti siciliani sono sempre in equilibrio, anche ora. E’ vero, l’equilibrio odierno è fatto di trasferimenti statali e di prestiti (che quindi creano debito), ma c’è. Ed è un male, perché significa che anche la Regione e i Comuni, non solo lo Stato, fanno sparire dalla circolazione più denaro di quello che immettono. Hanno cioè una funzione recessiva (direbbe la MMT Theory). Ma in questo articolo di moneta non parliamo. Parliamo solo di fisco.
Ipotesi 1 (Stato attuale):
Oggi la Sicilia spa (Regione + Comuni + enti controllati), vanta 22,6 miliardi di entrate (di cui 8,8 miliardi di entrate proprie, circa 7 di tributi devoluti dallo Stato, 5,7 di trasferimenti dallo Stato di parte corrente, e 1 miliardo di entrate in conto capitale) e 18,9 miliardi di spese (di cui 16,5 di parte corrente e 2,4 in conto capitale).
Ipotesi 2 (Piena attuazione dello Statuto):
Entrate 34,9 miliardi di euro (+ 12,3 rispetto alla condizione attuale), Spese 25,3 (+ 6,4 miliardi rispetto alla condizione attuale). Il surplus, di circa 6 miliardi l’anno, anziché essere fatto sparire dalla circolazione, come accade oggi, per ripiano debiti o simili, potrebbe essere restituito alla Sicilia sotto forma di detassazione del reddito e dei consumi, o sotto forma di reddito sociale, o sotto forma di maggiori e migliori servizi alla collettività, o spese per investimenti, per ricerca, cultura, etc. O una combinazione di tutto ciò. Ma, meno male che ci sono i “coraggiosi” che vogliono toglierlo, lo Statuto.
Ipotesi 3 (Piena indipendenza):
Entrate 37,8 miliardi (quasi 3 miliardi in più rispetto alla precedente) Spese 30,6 miliardi (altri 5 miliardi abbondanti in più di spese). Il surplus si riduce. L’indipendenza conviene ancora rispetto alla condizione attuale, ma è un po’ più costosa rispetto alla piena autonomia. La libertà, evidentemente, ha un prezzo. Ma ricordiamo che il conto è “a bocce ferme”. A mio modesto avviso, sarebbe sempre conveniente, ancor di più che l’attuazione dello Statuto, peraltro possibile solo in via teorica.
Un ultimo conto: catastrofico. L’Italia, per boicottaggio, il giorno dopo l’indipendenza blocca il pagamento di tutte le pensioni. Si va un po’ in deficit: 49,3 di Entrate (ci prendiamo anche le Entrate contributive) e 49,5 di spese (ci prendiamo il pagamento delle pensioni). Ma siamo sicuri che con la nazionalizzazione delle fonti di energia e della ripubblicizzazione dell’emissione della moneta non ne avremmo comunque d’avanzo?
L’indipendenza conviene, lo dicono i numeri. L’Italia è solo catene e povertà. Possano un giorno, molto prossimo, i Siciliani rendersene conto e seguire l’esempio della Catalogna.