Una delle cose più importanti da sapere sulla stagione dei dibattiti per le elezioni presidenziali americane del 2016, è che molti tra i candidati che vi parteciperanno non hanno alcuna vera aspirazione o intenzione di arrivare alla Casa Bianca.
E' questo il caso per più della metà dei ben sedici politici repubblicani che hanno dichiarato finora la loro discesa in campo e che giovedì 6 agosto si affronteranno nel primo confronto televisivo di fronte alla nazione.
Questi dibattiti hanno, in realtà, un valore molto relativo per gli elettori che vogliano conoscere le posizioni ideologiche dei politici che vi partecipano dal momento che essi rappresentano, per lo più, un'occasione per aumentare la propria visibilità e popolarità con l'opinione pubblica a prescindere dalle aspirazioni effettive e si trasformano quindi in generici pronunciamenti ricchi di enfasi retorica ma poveri di sostanza e dettagli.
Quest'anno, anche questo modesto proposito è stato ulteriormente complicato dall'incredibile numero di candidati che hanno dichiarato di puntare alla massima carica dello stato. Con un plotone di sedici o diciassette partecipanti, al più recente conteggio, le normali procedure che regolano lo svolgimento dei dibattiti sono state stravolte dalla necessità di organizzare uno spazio fisico che possa garantire la stessa visibilità a tutti i politici e che riesca a dare loro il tempo necessario per rispondere alle domande del pubblico e dei conduttori.
Il gruppo infatti è talmente nutrito che le organizzazioni televisive che presenteranno i dibattiti hanno dovuto decidere dei criteri per stabilire chi includere e chi lasciar fuori dalla discussione.
Dopo tanta attesa, la lista dei partecipanti è stata ufficializzata: dentro Donald Trump, Jeb Bush, Scott Walker, Ted Cruz, Mike Huckabee, Ben Carson, Rand Paul, Chris Christie, John Kasich e Marco Rubio. Fuori Rick Perry, George Pataki, Carly Fiorina, Lindsey Graham, Rick Santorum e Bobby Jindall.
Questo di per se è già un aspetto peculiare del processo democratico americano: in assenza di uno spazio pubblico dove comunicare il proprio messaggio politico agli elettori in un'ottica di servizio, un ente privato, come una stazione televisiva, rivendica implicitamente a se stesso il potere di decidere chi avrà o meno l'opportunità di presentarsi al pubblico e, quindi, il successo o il fallimento di determinate campagne elettorali che, naturalmente, si basano sulla visibilità e sulla popolarità di candidati.
Le reti televisive hanno dichiarato che l'accesso dei partecipanti al dibattimento sarà stabilito dai sondaggi con i dieci i posti a disposizione di coloro che godono di una maggiore notorietà e sostegno tra l'opinione pubblica. Ma la rete televisiva Fox News, che ha organizzato il primo dibattito, è rimasta convenientemente vaga sui dettagli di un processo di selezione in cui, visto il numero di candidati e la frammentazione del supporto, la differenza statistica tra l'ultimo degli ammessi e il primo degli esclusi è stata presumibilmente minima.
Per quanto Fox News abbia preparato una specie di secondo, più breve, dibattito aperto a tutti i sedici politici, è chiaro che questa "vetrina minore" verrà percepita dal pubblico come un evento secondario; quasi come un "dibattito dei perdenti" e, invece di aiutare, potrebbe potenzialmente avere un effetto controproducente per il gruppo degli esclusi.
A parte il numero astronomico di candidati, un altro elemento particolare di questa campagna elettorale, o almeno di questa sua prima fase, è costituito dall'inatteso primato di Donald Trump che si ritrova in cima ai sondaggi grazie alle sue clamorose dichiarazioni su tutto e su tutti: dagli immigrati messicani ai suoi compagni di partito. Grazie al suo consumato talento di fronte alle telecamere e alle sparate oltraggiose con le quali riesce a magnetizzare l'attenzione della stampa e dell'opinione pubblica, Donald Trump ha provocato una sorta di "saturazione mediatica" che lo rende unico nel gruppo dei candidati. Una mina vagante che, presumibilmente, durante i dibattiti perseguirà la stessa strategia basata sul tentativo di eclissare i suoi rivali con dichiarazioni forti e dando libero sfogo alla sua travolgente personalità.
Proprio in relazione a questa variabile, molti degli altri contendenti hanno compreso che la tecnica "trumpiana" della sparata oltraggiosa ed irriverente paga e, già nei giorni scorsi, hanno provato ad emularne l'uso come nel caso di Mike Huckabee il quale, a proposito dell'accordo concluso dal presidente Obama con l'Iran ha dichiarato alla stampa che l'intesa equivale ad "accompagnare il popolo di Israele alle porte dei forni crematori".
Questo trend iniziato da Trump ed imitato da alcuni degli altri candidati rappresenta un grosso problema strategico per i vertici del Partito Repubblicano che, in sede elettorale, ha disperatamente bisogno del sostegno almeno parziale di quei gruppi che tendono tradizionalmente a favorire i democratici vale a dire l'elettorato femminile e le minoranze nere e latine.
Il problema è che questi gruppi costituiscono anche i bersagli preferiti delle filippiche di Trump e, prevedibilmente, questi attacchi vengono recepiti positivamente dall'elettorato conservatore come dimostrano i risultati dei sondaggi che danno al magnate newyorchese la preferenza sui suoi rivali.
Il GOP quindi si trova in una specie di vicolo cieco perché, per affermarsi su scala nazionale durante le elezioni generali del 2016, ha bisogno di proiettare un'immagine di ecumenica moderazione che non alieni il sostegno di specifici gruppi. Ma, nell'ambito circoscritto delle primarie, il suo elettorato non gradisce le triangolazioni e l'opportunismo politico preferendo invece l'aggressiva franchezza senza peli sulla lingua di un candidato come Donald Trump che avrà anche poche possibilità di vincere la nomination finale ma che, almeno per ora, non ha nulla da perdere.