L’assessore alla Sanità della Regione Sicilia, Lucia Borsellino, si è dimessa. Le dimissioni sono state motivate, nel corso di un’intervista resa a Repubblica il 30 giungo scorso, da "prevalenti ragioni di ordine etico e morale, e quindi personale, sempre più inconciliabili con la prosecuzione del mio mandato”. Due giorni dopo l’atto formale. Si potrebbe osservare, di passata, che forse sarebbe stato meno incongruo un’ordine inverso: prima le dimissioni e poi l’intervista. Con il Presidente Rosario Crocetta, bene o male, era stata in Giunta dal Novembre 2012, ma deve essere prevalsa l’urgenza di motivare una decisione, prima ancora di assumerla.
Com’è noto, la pietra dello scandalo è stata l’indagine sul Dott. Matteo Tutino, primario di chirurgia plastica in un ospedale di Palermo e medico personale di Crocetta. La quale indagine, per ipotesi di truffa e altro, va avanti da vari mesi; probabilmente l’urgenza delle dimissioni a motivazione anticipata è stata indotta dagli arresti domiciliari, invece imposti al medico solo da qualche giorno.
L’ex assessore ha vistosamente rivendicato di avere prestato ogni collaborazione istituzionale alla Procura della Repubblica: “è riduttivo dire che abbiamo aperto le porte dell'assessorato agli investigatori. Le abbiamo spalancate”. E si può supporre che la misura cautelare si sia potuta giovare anche di tanta incontenibile accoglienza. E allora perchè dimettersi? Semmai poteva essere utile tenere la posizione, così meritoriamente protetta da tradimenti, nemici, infezioni. E così far constare le differenze. Fuori i cattivi, restano i buoni.
Oppure, una volta spalancate le porte e scoperta l’indagine, e scoperta pure la particolare qualificazione personale del rapporto fra il Presidente Crocetta e il dottor Tutino, si poteva già allora chiuderla lì (non prendo nemmeno in considerazione che si ignorasse una così notoria circostanza).
Forse, però, è solo il clamore, il chiasso a risultare decisivo. Non le cose che accadono o che non accadono, ma la risonanza, il botto. Con gli arresti l’imbarazzo si è fatto insostenibile. E la logica del clamore spiegherebbe anche l’intervista predittiva. Ma è proprio questo il punto. Attribuire valore decisivo allo spettacolo è il cuore dell’antimafia di carriera, è il suo metodo eminente.
Ecco che allora, mentre Lucia Borsellino si volge a denunciare una questione “etica e morale” nei confronti di Rosario Crocetta, un’altra icona dell’antimafia scossa da sospetti e dubbi che intaccherebbero, come dire, la stessa specialità della casa; mentre il fratello, Ispettore Manfredi, sembra darle manforte, per lo meno sul piano della tendenza culturale, diciamo, annunciando che non si recherà, il prossimo 19 Luglio, alla commemorazione del padre perchè per lui, “appassionato di calcio, i memorial sono quelli sui campi”; mentre, dunque, si vorrebbe fissare una parola nuova sul mellifluo terreno della vieta ed interessata retorica antimafia, ecco che il criterio primo e unico sembra rimanere quello dell’effimero, dell’apparente, dell’ombra da scacciare, della macchia da scolorire.
Per quel poco che conta, sono convinto della buona fede dell’ex assessore. Però così non resta niente di questa volontà chiarificatrice. E invece proprio il metodo bisognava denunciare.
E dire che non si doveva eleggere Rosario Crocetta per le sue conferenze-stampa, ma per i suoi meriti politici e amministrativi, se ce li aveva; che, pertanto, l’antimafia di maniera non si è scoperta (se si è scoperta) con l’arresto del dottor Tutino; che alligna in ogni espressione della vita pubblica; che riguarda gli imprenditori cosiddetti antiracket, come Roberto Helg; la gestione dei patrimoni confiscati in base alle leggi antimafia (da 22 a 30 miliardi di euro, secondo diverse stime) quasi sempre affidati, secondo il giornale I Siciliani, a “persone del tutto incompetenti, senza alcuna capacità manageriale, titolari di studi commercialistici di cui spesso le Procure si servono per alcune indagini, amici delle persone che sono incaricate di fare le nomine” (cioè le Procure, ma qui deve essere finito l’inchiostro); che, pertanto, l’antimafia di carriera ha il suo primo motore nelle Procure della Repubblica, siciliane in primo luogo. Ed infine, che l’antimafia di carriera è tale dal suo nascere; e che è nata proprio quando hanno ucciso Giovanni Falcone e suo Padre Paolo. Questo dovrebbe dire l’ex assessore Lucia Borsellino.
Già dieci anni fa (20 Febbraio 2005), Giuseppe D’Avanzo poteva scrivere di Giancarlo Caselli, il quale, sulla questione della mancata perquisizione della casa-rifugio di Salvatore Riina in tribunale, come testimone, aveva dichiarato di non avere “elementi per esprimere un giudizio”, che poteva fare varie mosse, ma che “la sola che gli è interdetta dalla decenza è di vestire i panni dell’osservatore attento e distaccato”. Decenza.
Il 25 gennaio del 1988, cioè 27 anni fa, Paolo Borsellino ebbe un pranzo con Leonardo Sciascia, dove i due si parlarono a lungo e amichevolmente; se il noto j’accuse dello scrittore fosse stato ritenuto, anche solo in parte, ingiustificabile, quel pranzo non ci sarebbe stato; ne viene, ovviamente, che anche Paolo Borsellino assunse la critica che Leonardo Sciascia aveva voluto per primo lanciare (un anno prima, 28 anni fa) sul pericolo di un certo metodo.
Il 25 Giugno del 1992, Paolo Borsellino tenne il suo ultimo discorso in pubblico; si era a Casa Professa, uno storico edificio sede della biblioteca comunale; parlò in un’aria rarefatta, tesa, commossa, colma di furia rattenuta dal dolore; parlò dal principio alla fine di magistrati, di CSM, disse che la responsabilità morale della strage di Capaci era di buona parte della magistratura (“…ha più colpe di ogni altro…”) avendo, fra l’altro, impedito che assumesse la direzione del Pool Antimafia (“ non voglio dire che Giovanni cominciò a morire nel gennaio 1988 e che questa strage del maggio 1992 sia il naturale epilogo di questo processo di morte…”). Ma lo disse, ovviamente.
L’attuale Presidente del Senato, Piero Grasso e Giancarlo Caselli, per tutti gli anni 2000, si sono lanciati accuse ed allusioni, sulla rispettiva “purezza antimafia” e sull’uso e l’abuso del nome di Paolo e Giovanni”, che ad un uomo normale sarebbero valse il suicidio.
Ecco, se in un’occasione come questa, un nome così nobile e a cui ogni italiano è devoto con affetto e inesauribile riconoscenza, avendo, come ha, memoria propria e autorevolezza sufficienti, non scuote la malapianta dell’antimafia di carriera dalle radici, sarà stata solo sarà una grande occasione mancata.
La civiltà si afferma con la cultura e con il metodo. E si perde quando cultura e metodo diventano chiacchiere.