Quando nel maggio del 2014, alle elezioni europee, neo Segretario del PD e neo Presidente del Consiglio, Matteo Renzi incarnò un successo di dimensioni inedite, e inattese anche dai più fiduciosi fra i suoi sostenitori, garriva la bandiera della promessa. Quale promessa? Quella rude ma efficace degli sfasciacarrozze: rottamazione. Giovane e vistosamente estraneo alla struttura storica sia dell’ultimo PCI, sia dell’ultima DC, essenze cadaveriche di due grandi partiti, vinse proprio perchè aveva promesso ampie e profonde bonifiche.
Accentuando una tendenza già manifestatasi due settimane fa, ieri si è consolidata la sconfitta. Nelle elezioni amministrative 2015, Renzi ha perso. Prima sconfitta in carriera, ma netta (l’apparente sconfitta alle primarie con Bersani, in realtà, fu il primo passo di una vittoria in due tempi). Non è il caso che ne faccia una tragedia: ma, se dovesse sottostimare il dato, magari sulla base dell’ovvio rilievo che generalmente il Governo delude più di quanto non entusiasmi; o che la cifra degli astenuti è tale da incidere pesantemente sulla consistenza demografica del voto; o che il calo dimostrerebbe l’inesistenza di clientele, e così via argomentando, rischierebbe seriamente di avviarsi al declino.
Renzi ha tre gravi problemi, a nessuno dei quali ha dedicato l’energia che meritano.
Primo. La classe dirigente. Va bene che sia giovane, va bene che, pertanto, debba poter commettere errori e non avere una storia di governo; ma è questione di misura. L’unico “anziano” che abbia una storia politica riconoscibile è il neo Ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. E’ persona misurata, senza strepiti; non sarà Bismarck ma nemmeno un vano poliglotta. Guardando lui ci si ricorda che il Governo della Repubblica riguarda gli italiani. Guardando gli altri ministri “maturi”, no. Il Ministro Poletti, come il Ministro Padoan, di prestigiosa carriera negli ambiti socio-culturali di provenienza, Cooperative l’uno, e Agenzie finanziarie internazionali, in particolare FMI, l’altro, tradiscono una malsana coazione neocorporativistica.
Vale a dire, l’idea per cui nei governi degli Stati che hanno ceduto, più o meno liberamente, una porzione di sovranità, i cordoni della borsa e chi debba più tirare la cinghia e chi meno, si decidono al riparo da insane pretese nazionali e democratiche: la formula è quella degli “indipendenti”, con cui ci si acquieta ad una sorta di mezzadria internazionale, firmando cambiali decise e rilasciate altrove. Il profilo di questi ministri non è congruo con la rivendicata revisione della cultura del Fiscal Compact. Buona la meta, inadeguata la via. Deve introdurre maggiore esperienza “politica”, non “tecnica”: e fare in modo che si capisca senza equivoci (dai volti e dai nomi) soprattutto tra Francoforte e Bruxelles, che si governa con la politica, errori compresi.
Secondo. Renzi non ha avversari interni. Ha nemici che si muovono come dei tagliagole, in attesa di poterlo finire in agguato notturno. Lo sa sin dall’inizio della sua vicenda politica nazionale, ma continua ad esasperare tatticismi suicidi. Così, ti si mangia, Presidente. I segnali infami venuti dal Presidente della Commissione Antimafia Bindi; l’indagine sul padre, passata dal bagnomaria alla cottura a fuoco lento (richiesta di archiviazione rigettata dal Gip: per ora); l’indefesso battage di atti d’indagine puntualmente in prima pagina (spesso robetta per cui si riceve regolarmente lo stipendio a tempo indeterminato, ma contrabbandata come l’Armageddon, per cui non bastano riconoscimenti e privilegi), riconfermano, con la consueta arroganza, che il concerto fra la gestione di certe indagini e taluni centri di potere editoriale ignora qualsiasi freno al suo strapotere. Deve agire sullo squilibrio costituzionale imperniato sulla magistratura; e deve porre la questione politica delle Fondazioni Bancarie: con particolare riguardo alle linee di credito opache che finiscono col sostenere Gruppi editoriali e finanziari più o meno noti, più o meno nuovi. In sperimentata e costante convergenza con certe “grandi interpretazioni storico-giudiziarie”, che pretendono di ricattare passato, presente e futuro dell’Italia. Cioè di uomini e cose. E’ un cerchio che va spezzato.
Terzo. Nell’immediato, deve disincagliarsi dalla riforma del Senato che, ogni giorno di più, sta rivelandosi una trappola. Si dia una scadenza, e se per l’autunno si trovasse ancora a fare la navetta, alzi la posta e chieda le elezioni. Se sarà capace di chiedere un mandato chiaro su Fondazioni Bancarie, holding editoriali e magistratura (liberandosi dal Complesso di Cantone e dall’uso pubblicitario del diritto penale) vincerà a mani basse. E lasci perdere gli orecchiamenti sull’evasione fiscale, pensando semmai a sostenere con opportuni sgravi l’esangue ma ancora esistente tessuto di piccole e medie imprese. Decimi i taglieggiamenti degli apparatcik. Riformi i poteri della Corte Costituzionale: in particolare, introduca una rigorosissima disciplina delle sentenze “c.d. “nei sensi di cui in motivazione”, evitando così che un organo giurisdizionale, per quanto sommo, si sostituisca al Parlamento senza oneri di responsabilità politica. E non si perda troppo in tweet. Agisca, agisca con coraggio e risolutamente, corra dei rischi e provi ad immaginarsi grande, se proprio non riesce ad esserlo.
Altrimenti, le promettenti iniziative fin qui avviate: riforma della scuola, riforma della P.A., riforma dell’Unione Europea, liquidazione di una classe dirigente incancrenita e parassitaria, finiranno in una sconfitta stagnante. Se Renzi fallisce, Landini e Rodotà, Salvini e Grillo guazzeranno come monatti biliosi e infelici. E’ un incubo che deve finire.