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April 24, 2015
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April 24, 2015
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Il fallimento della Regione siciliana in stile Grecia: bloccare i Tfr a circa 10 mila futuri prepensionati?

Giulio AmbrosettibyGiulio Ambrosetti
Time: 7 mins read

Un mese fa, o giù di lì, abbiamo scritto che il governo nazionale di Matteo Renzi sta utilizzando la Sicilia come primo ‘esperimento’ di fallimento controllato di una Regione italiana. Prima di noi anche il professore Massimo Costa, collaboratore del nostro giornale, ha parlato di “fallimento della Sicilia”. Quello che sta succedendo in queste ore nel Parlamento dell’Isola conferma la nostra tesi (e la tesi del professore Costa). Come ripetiamo spesso – soprattutto a beneficio dei lettori americani – la Sicilia è una Regione autonoma a Statuto speciale. Con un proprio Parlamento. Ebbene, in queste ore, la commissione Bilancio e Finanze dell’Assemblea regionale siciliana (questo il nome del Parlamento dell’Isola) ha quasi definito la manovra di Bilancio 2015. Con molta probabilità, la prossima settimana lo stesso Parlamento siciliano discuterà e approverà il Bilancio di quest’anno. Un Bilancio 2015 – che ora proveremo a illustrare per grandi linee – che sancisce il fallimento controllato (da Roma) della Regione siciliana.

Cominciamo con un dato generale. Sui giornali siciliani, in questi giorni, abbiamo letto di tutto e di più. Noi, partendo dai dati emersi nel dicembre dello scorso anno, facciamo riferimento ad alcuni numeri: 5 miliardi di euro il ‘buco’ di ‘cassa’ scoperto poco più di quattro mesi addietro nei conti della Regione. Guarda caso, è pressappoco la stessa cifra che il governo nazionale ha strappato alla Regione siciliana negli ultimi due anni. E non può che essere così: dal 2008 ad oggi, infatti, la Regione non ha fatto altro che tagliare risorse finanziarie su ordine di Roma. Se oggi dal Bilancio regionale mancano 5 miliardi di euro, ebbene, questo avviene perché questi soldi sono finiti a Roma. Risorse che il governo nazionale utilizza, in buona parte, per pagare la permanenza dell’Italia nell’Unione europea dell’euro.

Del resto, carta canta: il Fiscal Compact – il trattato internazionale siglato nel 2012 dal governo Monti, approvato dal Parlamento italiano dell’epoca e dall’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano – prevede che l’Italia paghi, per 20 anni, 50 miliardi di euro all’anno per dimezzare il proprio debito pubblico che ha ormai superato i 2 mila miliardi di euro. Da qualche parte questi soldi da ‘immolare’ ogni anno sull’altare di Bruxelles bisogna trovarli. E la Sicilia – lo hanno deciso il governo Renzi e il Pd – è la Regione italiana che deve pagare di più.

Tutto questo sta avvenendo – e questo è forse il dato politico paradossale – mentre la Sicilia esprime le due più alte cariche dello Stato, se è vero che il Presidente della repubblica, Sergio Mattarella, e il presidente del Senato, Piero Grasso, sono siciliani. Mentre la terza carica dello Stato – la Presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini – è stata eletta in Sicilia nella lista di Sel.

Sui giornali siciliani leggiamo che il Parlamento dell’Isola si accingerebbe a varare un Bilancio 2015 con un ‘buco’ di 500-600 milioni di euro, soldi che non ci sarebbero. Noi preferiamo aspettare di leggere il documento finanziario finale: non quello approvato dalla commissione Bilancio e Finanze, ma quello che la prossima settimana verrà approvato dal Parlamento siciliano.

Detto questo, vorremmo segnalare in anticipo una previsione e una certa disinformazione. La previsione è che il ‘buco’ di Bilancio 2015 della Regione non sarà di 500-600 milioni di euro, ma superiore al miliardo di euro (e, credeteci, siamo ottimisti). La disinformazione sta nel fatto che alcuni esponenti del Pd – nazionale e siciliano – si ostinano a dire e ribadire che lo Stato “aiuterà la Sicilia a patto che il Parlamento siciliano approvi le riforme”. Questa formula linguistica presuppone una bugia e la mancanza di coraggio per chiamare le cose per quelle che sono.

Cominciamo dalla bugia. Che è nei numeri e nei fatti. Abbiamo detto (l’abbiamo scritto più volte) che il ‘buco’ di ‘cassa’ di 5 miliardi di euro è stato provocato dai soldi che il governo nazionale ha scippato alla Regione siciliana negli ultimi due anni. Lo Stato non deve ‘aiutare’ la Sicilia: semmai dovrebbe restituire alla Regione almeno una parte delle risorse che ha strappato alla stessa Regione negli ultimi due anni. Il fatto che, adesso, per restituirci una parte dei soldi pretenda che il Parlamento dell’Isola vari alcune “riforme” si configura come una vera e proprie estorsione politica (e non soltanto politica). Ora proveremo a dimostrare perché si tratta di un’estorsione politica. E lo faremo affrontando il secondo punto: la mancanza di coraggio del governo Renzi e dei suoi esponenti che non chiamano le cose con il proprio nome.

Dire a una Regione che, sotto il profilo economico e finanziario è ormai al collasso che deve effettuare le “riforme”, significa non avere il coraggio di affermare che la Sicilia deve licenziare da 40 mila a 50 mila persone. Questo perché con i tagli che sono iniziati nel 2008 e non si sono più fermati, il Bilancio della Regione, oggi, è ‘rigido’. Che significa ‘rigido’? Significa che, al 99 per cento, è fatto di spese correnti. Queste spese correnti, semplificando, non sono altro che stipendi e pagamenti obbligatori. Se si va a togliere – come si sta provando a fare – un miliardo di euro di euro (e forse più) dalla ‘cassa’, a rigor di logica gli effetti non possono che essere due: o la Regione non effettua più i pagamenti obbligatori (e questo è impossibile, perché la legge non lo consente!), o la Regione licenzia un numero di soggetti i cui stipendi, sommati, arrivano al miliardo di euro (e forse più). Anche se il governo Renzi non lo dice, è proprio quello che sta succedendo.

Siccome il ‘buco’ è, con molta probabilità, maggiore di un miliardo di euro, il governo nazionale (con la complicità del governo regionale e, in particolare, dell’assessore al Bilancio, Alessandro Baccei, non a caso imposto dal governo Renzi al presidente della Regione siciliana, Rosario Crocetta) non può licenziare 100 mila persone. Così ha deciso di far pagare una parte di questo miliardo e più agli attuali dipendenti pubblici della Sicilia; una seconda parte ai lavoratori precari (che non verranno licenziati, ma lasciati senza retribuzioni nel tentativo di prenderli per stanchezza); una terza parte ai pensionati della Regione; mentre quarta parte, piaccia o no, dovrà essere portata a termine con i licenziamenti. Di fatto, in Sicilia succederà quello che è avvenuto in Grecia, anche se con qualche variazione sul tema.  

Anche se con notevole ritardo i dipendenti della Regione siciliana scenderanno in piazza il 29 aprile. Dovrebbero essere in piazza anche i pensionati della stessa Regione. Ai lettori americani va illustrata la follia di una Regione che ha costituito un Fondo pensioni per i propri dipendenti solo nel 2009. Il risultato è che quasi tutti i pensionati regionali vengono pagati con fondi di Bilancio. Se, come sta avvendo, vengono meno i fondi di Bilancio, vengono meno anche i soldi per pagare i pensionati.

Così, per risparmiare, il governo nazionale ha deciso di tagliare anche le pensioni agli ex dipendenti regionali. Va detto che alcuni pensionati regionali se la passano meglio rispetto a quelli dello Stato. Perché usufruiscono di una pensione calcolata con il metodo retributivo e non contributivo. Detto questo, non è ancora chiaro se ad essere colpite saranno le pensioni da 2 mila euro al mese in su o tutti i pensionati regionali (che sono circa 16 mila).

Pesantissima – a giudicare da quello che si legge nelle ‘carte’ della commissione Bilancio e Finanze del Parlamento siciliano – la manovra per i dipendenti della Regione. Su circa 18 mila dipendenti, sembra che il governo nazionale – che con l’assessore Baccei detta legge in Sicilia, alla faccia dell’Autonomia siciliana! – vorrebbe mandare a casa da 8 a 10 mila persone. Prepensionamenti, si chiamano così. Su questo punto sarebbe in corso una manovra per risparmiare il miliardo di euro ulteriore che la Regione dovrebbe erogare a chi va in pensione a titolo di Tfr (Trattamento di fine rapporto) o liquidazioni.

Abbiamo già sottolineato che la Regione non ha un proprio fondo pensioni. Ciò significa che, oltre a pagare le pensioni, deve pagare anche i Tfr. Fatta una media di 100 mila euro di Tfr per ogni dipendente (ed è una media al ribasso), per pagare il Trattamento di fine rapporto a circa 10 mila lavoratori da prepensionare ci vorrebbe un miliardo di euro. Che, ovviamente, la Regione siciliana non ha. Stando a quello che si capisce, i 10 mila dipendenti regionali verrebbero mandati a casa in prepensionamento, ma senza ricevere subito il Tfr. Che, a quanto si sussurra, verrebbe pagato il tre soluzioni dal 2020 in poi. A noi questa soluzione sembra una follia, anche perché nel 2020 la Regione siciliana potrebbe non esserci più, grazie alle 'rate' annuali del già citato del Fiscal Compact. Ma tra le tante ‘carte’ che abbiamo letto anche quest’ipotesi. Vera? Falsa? Non sappiamo.

Ribadiamo: saremo più chiari ed esaustivi quado avremo tra le mani il testo della legge approvata dal Parlamento siciliano. Però una verità non la possiamo nascondere: la Regione non ha i soldi per pagare i Tfr a 10 mila possibili prepensionati (li avrebbe se il governo Renzi restituisse i soldi che ha scippato alla Regione siciliana: cosa che non avverrà).

Ovviamente, i 10 mila prepensionati non basterebbero a far quadrare i conti. Secondo i nostri calcoli – che abbiamo effettuato leggendo le ‘carte’ della commissione Bilancio – altri 35 mila-40 mila soggetti dovrebbero perdere in parte o tutto lo stipendio. E’ una follia sociale: ma è quello che rischia di succedere.

Detto questo, precisiamo che è vero che in Sicilia c’è un eccesso di dipendenti pubblici e di precari. Ma va aggiunto che tutti i dipendenti pubblici e tutti i precari sono stati creati dalla Regione siciliana e dallo Stato. Su questo argomento torneremo domani, dimostrando – con i fatti e non con le chiacchiere – le responsabilità dello Stato nella folle gestione della pubblica amministrazione del Sud in generale e della Sicilia in particolare. Quello Stato italiano che, adesso, si vorrebbe chiamare fuori invitando il Parlamento siciliano a “fare le riforme”…

Foto tratta da business.laleggepertutti.it     

 

 

 

   

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Giulio Ambrosetti

Giulio Ambrosetti

Sono nato a Palermo, ma mi considero agrigentino. Mio nonno paterno, che adoravo, era nato ad Agrigento. Ho vissuto a Sciacca, la cittadina dei miei genitori. Ho cominciato a scrivere nei giornali nel 1978. Faccio il cronista. Scrivo tutto quello che vedo, che capisco, o m’illudo di capire. Sono cresciuto al quotidiano L’Ora di Palermo, dove sono rimasto fino alla chiusura. L’Ora mi ha lasciato nell’anima il gusto per la libertà che mal si concilia con la Sicilia. Ho scritto per anni dalla Sicilia per America Oggi e adesso per La Voce di New York in totale libertà.

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