Pietro Ancona è stato uno dei protagonisti della Cgil siciliana, della quale, negli anni ’70 del secolo passato, è stato segretario generale. Uomo di sinistra, su certi temi politici e sociali ha sempre mantenuto ferma la ‘barra del timone’. Quando Luciano Lama – storico dirigente della Cgil italiana – veniva in Sicilia, sul palco accanto al leader nazionale c’era sempre lui.
Oggi Pietro Ancona è un osservatore attento e acuto della vita politica e sociale del nostro Paese. E della Sicilia. Molto attivo su facebook, interviene con post su fatti che riguardano la politica internazionale, nazionale e siciliana. Ad Ancona abbiamo chiesto di raccontarci un po’ del suo vissuto.
“Nel 1946 con Regio Decreto – ci dice Ancona – veniva approvato lo Statuto della Regione

Pietro Ancona
siciliana, un documento di fondamentale importanza che concedeva un’ampia Autonomia, un quasi autogoverno per la più importante Isola del Mediterraneo. Lo Statuto fu un avveduto e lungimirante atto del rinascente Stato che dava una risposta positiva, ma alternativa alle maggiori pulsioni popolari che diedero vita al separatismo, una stagione per molti versi oscura in cui la convergenza di interessi planetari degli Stati Uniti con quelli della classe agraria minacciata dalle rivendicazioni dei contadini che occupavano le terre minava l'unità nazionale e strumentalizzava un diffuso risentimento delle masse popolari contro la nazione”.
“Lo Statuto in sostanza – prosegue l’ex segretario della Cgil siciliana – sanciva e tutelava il diritto all'autogoverno riconoscendo all'Assemblea regionale siciliana la possibilità di legiferare in materie fondamentali per la gestione dell'economia regionale. Recentemente questo Statuto, sicuramente invecchiato in alcune parti, ma dominato da un impianto molto democratico ed autonomistico, è stato sfregiato da una riforma disgraziatamente approvata da quasi tutta l'Assemblea di stampo populistico presidenzialistico ispirata ai peggiori principi d’autoritarismo ‘democratico’ che danno risposte verticistiche e reazionarie alle grandi novità del nostro secolo”.
“Le prime elezioni regionali, nel 1947 – racconta – assicurarono un successo strepitoso al Blocco del Popolo, l'unione delle sinistre. Una vittoria che aprì il cuore alla speranza di milioni di contadini poveri che aspiravano da molto tempo al miglioramento della loro triste condizione e che cinquanta anni prima avevano dato vita al movimento dei Fasci dei Lavoratori duramente represso con anni di carcere inflitti al suo gruppo dirigente ed a tanti contadini. La risposta della destra non si fece attendere: una destra contraria alla riforma agraria appoggiata dagli americani che continuavano a tenere sotto osservazione quanto avveniva in Sicilia per via di una possibile vittoria delle sinistre in Italia che avrebbe alterato profondamente gli accordi di Yalta. Nel caso di vittoria dei socialcomunisti, la Sicilia era considerata regione di fondamentale importanza strategica per il controllo del Mediterraneo e della stessa Italia”.
“Il movimento per l'occupazione delle terre, per riscattare i minatori dello zolfo dalle loro terribili condizioni, la protesta nelle grandi città per il prezzo del pane, un gran subbuglio di tutti i ceti poveri della città e delle campagne – ricorda oggi Ancona – determinavano uno stato d’instabilità permanente che destava non poche preoccupazioni in chi gestiva le istituzioni appena sorte o rinate. In questo scenario agitato e oscuro maturano le condizioni per la strage di Portella delle Ginestre nella quale, il primo maggio del 1947, perivano undici contadini ed altri restavano feriti, mentre si accingevano a festeggiare accampati attorno al sasso di Nicola Barbato”.
“L'eccidio di Portella – prosegue Ancona – si congiungeva all’uccisione di numerosi sindacalisti in gran parte socialisti, delitti rimasti impuniti, ma con il visibile marchio della mafia protetta da connivenze d’altissimo livello. Portella delle Ginestre e l'ecatombe di sindacalisti ebbero l'effetto di bloccare il processo di crescita della sinistra ed assicurarono al blocco "moderato" di centro-destra un controllo dell'Assemblea che si è protratto fino ai nostri giorni, tranne la parentesi milazziana”.
“Non si può dire che i governi di centrosinistra abbiano segnato con misure e programmi apprezzati dalla popolazione in modo diverso, alternativo, la gestione dell'Autonomia siciliana – dice sempre Ancona -. Questi sessanta anni sono stati dominati da alcuni essenziali processi economici che hanno inciso a fondo sulla struttura sociale dell'Isola. La riforma agraria liberò la Sicilia dal feudo, ma fu un clamoroso fallimento non riuscendo ad avviare né la piccola proprietà coltivatrice che Fanfani riuscì a far decollare in vaste zone dell'Italia, né grandi aziende di tipo cooperativistico. Il fallimento della riforma agraria siciliana generò un movimento emigratorio verso l'Europa ed il resto del mondo che fu certamente una tragica lacerazione del tessuto familiare delle nostre comunità, ma anche una grande pompa per attingere dall'estero risorse finanziarie purtroppo in gran parte utilizzate soltanto per consumi familiari o per l'acquisto o la costruzione di modeste abitazioni”.
“La vera rivoluzione sociale – dice ancora il dirigente storico della Cgil siciliana – non fu la riforma agraria, ma l'emigrazione che portò la Sicilia a contatto con la modernità, a cominciare dalle prime radioline a transistor e dall'esordio della motorizzazione. Intanto, la grande industria chimica e petrolchimica, bisognosa di spazi e di condizioni esterne di grande favore a cominciare da una debolissima pubblica amministrazione ricattata dal bisogno di lavoro delle popolazioni, s’installava nei luoghi mitici della Sicilia greca, in bellissime contrade sul mare ricche di storia millenaria ed incontaminate, producendo un drammatico impatto ambientale, ma anche una profonda trasformazione della situazione socioeconomica che passa velocemente dal paesaggio pastorale di Teocrito alla più moderna concentrazione industriale del Mezzogiorno. La provincia di Siracusa e Gela sono colonizzate da industrie chimiche che assicurano migliaia di salari industriali destinati a mutare profondamente il volto della Sicilia".
"Nessuno – dice oggi l'ex segretario della Cgil siciliana – si curò delle terribili conseguenze sulla salute e sull'ambiente di tali enormi insediamenti di raffinerie ed altro. Se qualcuno sollevava la questione veniva o restava isolato. Gli stessi sindacati non fecero quasi niente per contrastare la subordinazione di tutte le risorse ambientali ed umane al bene delle imprese presenti. In effetti, una condizione d’ignoranza generale favoriva un’industrializzazione che avrebbe portato danni immensi alle popolazioni ed all'ambiente”.
“A chi timidamente faceva osservare che forse la Sicilia doveva utilizzare quei territori per il turismo e l'agricoltura – ricorda sempre Ancona – si rispondeva che non volevano un'Isola di camerieri, ma la moderna cultura industriale. I risultati sono drammatici: migliaia di bambini malformati, centinaia di morti per tumori di vario tipo, inquinamento perenne del suolo, delle acque, del mare. Una condizione gravissima in cui qualche volta interviene la magistratura subito scoraggiata dal fatto che si preferisce morire di tumore piuttosto che di fame. La storia dell'industria chimica in Sicilia è oramai una storia di deindustrializzazione. Abbiamo i resti di quello che fu un polo di circa centomila addetti, resti pericolosi perché gli impianti sono oramai fatiscenti e ogni tanto sfuggono di mano a chi li controlla. Altri fondamentali insediamenti industriali non furono mai realizzati”.
“Durante il governo dell'On.le Emilio Colombo, negli anni Settanta del secolo passato – prosegue Ancona – venne fuori un pacchetto di provvedimenti che includevano un centro elettrometallurgico da realizzare a Capo Granitola, altra bellissima zona costiera della provincia di Trapani, e si sviluppò la contesa sul quinto centro siderurgico, una contesa che rischiò di mettere contro la Sicilia e la Calabria, ma che alla fine svanì in una bolla di sapone. I sindacati siciliani diedero vita alla cosiddetta ‘vertenza Sicilia’ che mobilitò nel profondo i lavoratori. L'esito non è stato positivo, essendo l'impianto delle rivendicazioni prevalentemente rivolto verso le Partecipazioni Statali ed il Governo, quando già altre problematiche relative alla privatizzazione bussavano alla porta e lo Stato imprenditore cedeva le sue aziende. L'insediamento che ha retto meglio nel tempo è stato quello della Fiat di Termini Imerese, recentemente coinvolta da una profonda crisi dalla quale stenta ad uscire”.
“Prima della fine ingloriosa dei cavalieri del Lavoro di Catania, coinvolti in gravi fatti di mafia – ricorda sempre il dirigente della Cgil siciliana – si creò e durò per qualche tempo il mito della Milano del Sud. In verità non è mai esistita, in Sicilia, alcuna Milano nel Sud. Soltanto di recente si è creato uno stabilimento di altissima tecnologia elettronica che impiega manodopera superspecializzata fatta d’ingegneri e tecnici. Ma è soltanto un punto di eccellenza in un deserto. In questo quadro in cui sono più le macerie dall’industrializzazione degli anni Sessanta che le novità di nuovi insediamenti in settori trainanti dell'economia, brilla l'unico grande successo ottenuto dalla Sicilia con la propria caparbia volontà: mi riferisco al metanodotto con l'Algeria voluto dall'Ente minerario siciliano (Ems) diretto da Graziano Verzotto contro la volontà e l'ostruzionismo dell'Eni che, nel 1972, costituì con la Sonatrak algerina una società denominata Sonens. Questa incaricò la Bectel di uno studio di fattibilità per la posa sottomarina dei tubi e poi diede luogo alla realizzazione di una grande opera di ingegneria e di pace che da decenni assicura l'approvvigionamento di metano per il 26% del fabbisogno nazionale”.
“A suo tempo – prosegue Ancona – fu detto che bruciare il metano soltanto per usi domestici sarebbe stato come alimentare un camino con legna pregiata. Dal metano si può partire per la creazione di industrie ad alto contenuto tecnologico. Niente di tutto ciò ha visto la luce. Naturalmente la Regione è stata completamente estromessa. L'Ente minerario siciliano è stato proponente dell'unico programma di sviluppo industriale che abbia mai avuto la Sicilia dopo quello presentato dalla Confindustria negli anni Cinquanta e che provocò la rivolta di Domenico La Cavera. Un programma che riguardava anche i sali potassici e le sabbie silicee di cui è ricco il Palermitano. Sono dell'opinione che bisognerebbe riflettere sulla primazia del privato e delle privatizzazioni. Il metanodotto non sarebbe mai stato possibile se l'Ente Regione non avesse rischiato ed impostato il progetto. Penso che si dovrebbe riesaminare tutta la situazione delle risorse minerarie della Sicilia e riproporre un Ente, un’Agenzia in grado di lavorare e predisporre piani, programmi, progetti. In sostanza, lo sviluppo non può essere la variabile dipendente di investimenti privati che, o non ci sono, o hanno interessi non coincidenti con quelli della Regione”.
“A tracciare un bilancio assai sommario – dice sempre il sindacalista – si può affermare che abbiamo realizzato assai meno di quanto siamo riusciti a realizzare negli anni Cinquanta e Sessanta, a parte le novità veramente interessanti del campo agricolo con successi particolari nella commercializzazione dei vini e nella specializzazione dei vigneti che ci hanno collocato in un posto più che onorevole nei mercati internazionali. Certo, la Regione dovrebbe potenziare l'apparato di studi e ricerche che sta alle spalle del settore, proteggendolo dalle variazioni che il mercato presenta e consolidandone i dati di qualità duratura nel tempo. La spietata concorrenza cui è sottoposta tutta la nostra produzione agricola, a cominciare dall'agrumicoltura, dovrebbe indurre la Regione ad incentivare il miglioramento della qualità dei prodotti. Un sostegno che non privilegi il parassitismo, ma che aiuti i nostri prodotti a stare nelle nicchie alte del mercato”.
“Tutta l'economia regionale – dice Ancona – subisce contraccolpi negativi dalla presenza della Regione. La Regione, oggi, è diventata un buco nero che assorbe le risorse finanziarie e le usa per mantenere una struttura elefantiaca e grottesca estremamente costosa e viziata, per foraggiare con vari assistenzialismi clientele elettorali, per dissipare con vari sistemi di consulenza o di esternalizzazione dei servizi risorse preziose. Allo stato delle cose, piuttosto che dare più risorse a questa terribile idrovora, sarebbe meglio chiudere tutto e ricominciare da qualche altra parte. Ma questo purtroppo non è possibile. La domanda che mi pongo è la seguente: è riformabile la Regione dall'interno? Un cambiamento di gestione politica dal centrodestra al centrosinistra potrà aiutarci a ritrovare la strada giusta? Forse non basterà. Bisognerà, a mio parere, imparare ad usare i referendum, coinvolgere i siciliani nella formazione delle leggi ed avere un programma radicale di risanamento finanziario, a partire dal fondo regionale pensioni che non può essere un'oasi privilegiata nel regime pensionistico nazionale”.
“Occorre un progetto di razionalizzazione degli apparati burocratici – dice sempre Ancona – ricavandone quanto serve per un buon funzionamento dell'amministrazione, bloccando le assunzioni fino a quando non si starà attorno ad un ragionevole organico. Occorre abolire tutte le consulenze e tutte le esternalizzazioni e le faraoniche spese di rappresentanza della Regione nel mondo; riformare la politica nel senso di ridurre a retribuzioni accettabili gli emolumenti di tutto il personale politico ed il costo complessivo dello stesso che si è moltiplicato negli ultimi anni. Non si può guardare al futuro con speranza a bordo di una faraonica e costosa imbarcazione con migliaia di addetti che ne divorano le sostanze. Quanto tutte le risorse vengono usate per le spese correnti non c'è spazio per progetti nuovi ed investimenti a lungo termine nella ricerca e nel sostegno esterno al sistema economico”.
“Suggerisco, come primi provvedimenti – sottolinea Ancona – la revoca delle riforme apportate allo Statuto, l'abrogazione della legge elettorale, l'abrogazione delle leggi per i gabinetti politici degli assessori, una drastica riduzione degli stipendi dei deputati, la revoca dei privilegi a loro accordati, insomma segnali che i Siciliani possono riconoscere come manifestazione di una volontà di guarire dalla megalomania di un apparato barocco, costoso ed offensivo per la condizione media delle nostre popolazioni. Ho creduto molto nell'Autonomia Siciliana e ne sono molto deluso. Non si tratta soltanto del cattivo uso che ne abbiamo fatto, ma di un sostanziale errore nella struttura della pubblica amministrazione che non può essere una continua clonazione dell'apparato centrale dello Stato e magari mentre questo dimagrisce e diventa più agile la Regione diventa obesa”.