L’educazione scolastica e la formazione in un Paese sono fondamentali: dalla qualità degli insegnamenti impartiti durante i primi anni di vita dipende la qualità della società dei decenni successivi. Nelle scorse settimane si è discusso molto del piano del governo Renzi denominato “Buona Scuola”. Molte le critiche, pochi i sostenitori.
Lo stesso avvenne intorno alla metà del XIX secolo quando la scuola fu oggetto di una riforma radicale. Anche allora (come oggi) esisteva un profondo distacco fra le diverse parti d’Italia: da un lato c’era una borghesia incalzante guidata da un ristretto numero di persone culturalmente ed economicamente predominanti; dall'altra c’erano il popolo e la nobiltà. Stranamente, in quel periodo, le differenze dal punto di vista culturale tra plebe e nobiltà non erano poi così evidenti. A cominciare dalla lingua: l’italiano era la lingua ufficiale dell’Italia unita, ma pochi la conoscevano, e ancora meno la parlavano. Tutti, nobili e plebei, ricchi e poveri e finanche i “colti” usavano i dialetti. Anche re Vittorio Emanuele parlava abitualmente in dialetto nelle riunioni con i suoi ministri.
Come sta avvenendo oggi con l’accentrarsi dei poteri dello Stato nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone, nessuna delle quali eletta, anche dopo l’avvento dei Savoia l’Italia venne “piemontesizzata”. Anche oggi tutti i principali servizi sono sempre più accentrati nelle mani di commissari straordinari non eletti, né selezionati mediante procedure trasparenti, ma semplicemente “nominati” (si pensi all’ultima modifica del sistema Rai). Allo stesso modo, negli anni successivi all’unificazione, una schiera di funzionari, per lo più piemontesi, vennero posti a capo di tutti i principali ‘uffici’. Allora come oggi lo scopo era lo stesso: controllare la popolazione e trasmettere la volontà di chi governa dai vertici del Paese fino all’ultimo degli abitanti.
La scuola ebbe un ruolo fondamentale in questo modo di gestire la ‘cosa comune’. Nella seconda metà dell’800 più del 78% della popolazione era ancora costituita da analfabeti (ma nel Meridione questa percentuale era ben maggiore). Per secoli i sovrani borbonici avevano deliberatamente lasciato le masse cittadine e rurali nell'ignoranza convinti che “solo se abbandonata in quelle condizioni la plebe obbedisce e non si mette grilli nel capo”.
Nel 1860 entrò in vigore in tutto il Paese una nuova legge che prese il nome dall’allora ministro della Pubblica Istruzione, Gabrio Casati. Anche la “legge Casati”, come molte delle misure presentate, anzi imposte, dai governi italiani di questi ultimi anni, fu proposta come uno strumento innovativo e mirante a favorire l’alfabetizzazione di tutto il regno d’Italia. La scuola divenne obbligatoria, ma solo per due anni, ma la frequenza era bassissima e i controlli praticamente inesistenti. I maestri, esattamente come vorrebbe fare oggi il “nuovo che avanza” (leggere governo Renzi), vennero scelti in modo insindacabile dai dirigenti locali, alcuni furono assunti solo in quanto “reduci dalle patrie battaglie”, altri perché “clienti del sindaco o dell’assessore, più o meno alfabeti, che al massimo avevano frequentato corsi d’emergenza di pochi mesi” (come ha scritto Bonetta, 1990). E allora come oggi le retribuzioni erano basse e venivano decise in modo arbitrario.
Come se non bastasse, la legge fissava un tetto massimo di settanta alunni per classe, cosa questa che non consentiva agli insegnanti di operare correttamente. Senza dire che questa situazione peggiorava man mano che si scendeva lungo lo “stivale”: nel 1875 per le “classi inferiori”, nell’Italia settentrionale, la media era di un insegnante ogni 570 abitanti, al centro del Paese il rapporto era di uno ogni 950, e in quella meridionale di uno ogni 1.230. In Sicilia questo rapporto era di un insegnante ogni 1.500 abitanti. Con conseguenze ovvie sull’alfabetizzazione: non a caso, nella relazione di Girolamo Buonazia (1873), si parla di “modesto effetto” della scuola elementare nella lotta contro l’analfabetismo.
A questo (ancora una volta vecchio e nuovo si somigliano), va aggiunta una enorme disparità tra la qualità del servizio “pubblico” offerta nelle varie Regioni: spesso, soprattutto al Sud, gli istituti erano inadeguati, e questo sia per mancanza di finanziamenti, sia per favorire i collegi privati riservati ovviamente solo ai ricchi. Né era possibile costruire nuove scuole se non con il consenso del ministro dell'Interno o dei Lavori pubblici: in alcuni casi i ragazzi dovevano recarsi da una Regione all’altra per andare a scuola.
Ma le similitudini con il modus operandi del “nuovo che avanza” (che, però, in questo modo dimostra di essere alquanto “vecchio” e di “andare indietro”) non finiscono qui. Esattamente come è ormai prassi del governo Renzi, anche la “legge Casati” non fu discussa in Parlamento: venne scritta da una commissione composta da poche persone (tutte del Nord) e solo successivamente “vistata” da re, senza mai essere discussa nelle aule del Parlamento (la scusa fu il momento “difficile politicamente”).
I risultati delle riforme imposte a tutto il Belpaese dalla “legge Casati” non tardarono a mostrarsi. Esattamente come, con ogni probabilità, avverrà per la “Buona Scuola” di Renzi, gli effetti delle nuove regole nelle diverse parti del Regno d'Italia furono scarsi e molto diversi a seconda delle aree del Paese. Critiche furono levate in Parlamento da Francesco De Sanctis (“Io ho già incaricato il Consiglio superiore di esaminare la legge Casati perché proponga tutti i miglioramenti immediatamente attuabili”) e da Pasquale Villari (dovere della “classe agiata ed intelligente” avrebbe dovuto essere “dare non solo l’alfabeto ed il pallottoliere al povero lazzarone ed al contadino; ma un tetto, ma l’aria pura e la luce, un tozzo di pane, un mestiere”). La prova di ciò venne fornita dal censimento del 1871: il livello di alfabetizzazione non era migliorato sensibilmente e, soprattutto, non era diminuito il divario tra Nord e Sud. “La legge Casati è indegna del tempo e dell’Italia. Non conviene porvi mano per rappezzarne la decima parte”, disse Carlo Cattaneo.
Anche allora, come oggi, esplosero polemiche sulle materie (c’era chi, come Luigi Settembrini, avrebbe voluto tesi scritte in latino anche per diventare medico, giurista o architetto e chi, come Guido Baccelli, sosteneva che la scuola classica “deve formare uomini e cittadini, non scienziati”).
Anche allora si fece notare il peso politico della percentuale di scuole non statali che erano gestite principalmente da religiosi (nel 1879-80 gli studenti iscritti ai ginnasi governativi erano 12.191, quelli iscritti ai non governativi 25.724). Non sorprende, quindi, che la legge Casati favorisse più le scuole private che quelle pubbliche. Esattamente come oggi: a fronte di un sistema maledettamente carente sotto il profilo infrastrutturale (in base ai dati ufficiali, per ben 21.781 edifici scolastici, il 46% del totale e il 73% delle scuole presenta lesioni strutturali), nel decreto “Buona Scuola” del governo Renzi non si parla affatto di interventi per migliorare la situazione degli edifici scolastici.
Gli effetti della legge Casati si manifestarono realmente solo dopo decenni dalla sua applicazione: nel 1963 (nel frattempo erano state apportate diverse modifiche alla legge), ad un secolo dall’entrata in vigore della legge Casati, Tullio De Mauro fece notare che “un reale contatto con la lingua comune e la sua effettiva e definitiva acquisizione” esisteva solo per “coloro che, dopo le scuole elementari, continuavano per qualche anno gli studi”. La legge Casati non era servita a molto e di certo non a migliorare il sistema educativo italiano.
Le conseguenze di quel modo di organizzare la scuola hanno lasciato segni profondi anche nei nostri giorni: solo pochi giorni fa un deputato, Razzi, ha lanciato un tweet di auguri dicendo: “Buona Pascuetta!”. Un errore pacchiano che farebbe sorridere un bambino. Ma di errori simili (e anche peggiori) se ne vedono e se ne leggono molti. In Parlamento, ma anche in televisione, sui giornali e in molti settori. Anche quando fior di “professionisti” dovrebbero mostrare la propria competenza con la lingua italiana. E, invece, servono solo a dimostrare ciò che possono produrre decenni di cattiva educazione.
C’è una frase che accomuna due personaggi storici dello scorso secolo, due persone agli opposti sotto molti punti di vista. Due persone che, stranamente, dimostrarono di pensarla allo stesso modo a proposito dell’educazione. Adolf Hitler un giorno disse: “Che pacchia governare un popolo ignorante!”. Solo pochi anni dopo una frase molto simile, "Un popolo ignorante è un popolo facile da ingannare", venne pronunciata da Ernesto Che Guevara.
Ripensandoci, non è poi così difficile capire quali possono essere stati i “veri” motivi che portarono Casati a modificare il sistema educativo italiano. Un modo di educare le generazioni future che, ai tempi, fu presentato come una “Buona Scuola”…
Foto tratta da eunews.it