Primo tempo. Barbara Spinelli durante l’ultima campagna elettorale afferma ripetutamente che la sua candidatura al Parlamento europeo sarebbe stata solo di testimonianza, tesa a suscitare quanti più consensi, ca va sans dire, la sua qualità morale avrebbe saputo favorire. Poi, una volta eletta con la Lista Tsipras, una specie di caricatura dell’eurocomunismo di berlingueriana memoria, accetta l’elezione. Noblesse oblige. Dopo la rottura unilaterale della promessa, sul capo della neoparlamentare si sono addensate sorpresa, amarezza, critiche: la vetta acquisita che non lasciava in alcun modo prevedere la rovina a valle, la purezza che mai si sarebbe pensata a rischio di contaminazione.
Chiacchiere. Tutte chiacchiere. Pretendere di poter maneggiare una parola difficile, difficilissima come “morale”, di farne un prodotto da due-per-tre, da scaffale alla giusta altezza, che ci si può accaparrare col borioso ricorso a vaniloqui presuntuosi, a prose gravide di citazioni inconcludenti, è stata ed è la menzogna di cui si pascono molti, moltissimi di quelli che oggi ostentano smarrimento, dolore, costernazione.
L’On. Barbara Spinelli è membro vistoso del patriziato octroyeè che, vivacchiando nel privilegio, si è coricato sull’Italia popolare; che sorvola per diritto di nascita sulla variegata umanità sofferente, sempre presente nelle sue preghiere, ma di cui, a Roma come a Parigi, rifugge gli interni 3 scala C, le abitudini, la gestualità schietta e talvolta grossolana, la dispensa arrangiata, il gusto ingenuo per la parabola satellitare – aborrito companatico con cui la semplicità sa pure alimentare speranze disordinate e sogni ad occhi aperti – la cosmetica povera, colorata e chiassosa, abissalmente distante dal suo sale e pepe di inautentica sobrietà, dal taglio perfettamente contenuto con cui esibire ricercata indifferenza e distacco militante. E mentre l’avvilente inoccupazione, la crescente marginalità, scarnificano ogni giorno di più questo brulicante e anonimo sottofondo, evocato con liturgico puntiglio purché rimanga sotto e fondo, si dipana un’esistenza incessantemente impegnata ad onorare inviti, simposi, letture, scritture, recensioni, contratti editoriali e fondazioni bancarie. La parola data riassume tutto quello che si può ricondurre all’idea di morale, di buoni costumi, di regola dell’essere secondo il Bene. Infrangerla non lascia in piedi niente, ammesso che qualcosa ci fosse. E poiché status e asimmetrie sono noti e riconoscibili a chiunque voglia, il piagnisteo post-elettorale è solo una maschera per la propria infinitesima, personale, analoga ipocrisia.
Secondo tempo. Niki Vendola viene colto a conversare per telefono con un top manager del Gruppo Riva, proprietario della Ilva di Taranto: dalla conversazione risaltano accenti di untuosa confidenza fra il comunista contemporaneo e il capitalista d’antàn, culminati nella evocazione del modo, ritenuto irresistibilmente comico – “siamo stati un quarto d’ora a ridere” – in cui il predetto manager si era sottratto alle domande della stampa sui tumori a Taranto. Si precisava che la sottrazione “felina” del microfono dalle mani del giornalista aveva innescato la durevole ilarità fra il Governatore e il suo Capo di Gabinetto. In questi sette mesi la notizia, a sinistra, dopo qualche sparuta reazione di circostanza nell’immediato, è stata opportunamente dimenticata.
Vendola non è un patrizio. È un demagogo del ceto medio. Anche lui moraleggiante. Ma come lui, peggio di lui, sono quanti hanno sorvolato, ancora, su quella faccenda, simulandone una portata solo estetica, non politica. E invece, salmodiare di capitalismo più o meno selvaggio, di morte operaia, e poi ridacchiare con chi si afferma moralmente responsabile di un “modello di sviluppo”; straparlare di etica dei comportamenti, cioè attingere alla dimensione ideale, alla speranza che l’uomo non sia inesorabilmente ciclo biologico, ma possa orientarsi verso verità superiori, nobilitanti, per poi tradire tutto, rivelando una natura ambigua e versipelle, stupra la dignità della morale come e più della corruzione amministrativa, della violenza fisica, dell’incuria famelica e interessata. Ma nessuno in SEL ha posto questioni al Vendola divertito. La “lacerazione”, le questioni di coscienza e di principio sono esplose sulla sublime questione se dovesse prevalere l’Assemblea di partito o il Gruppo Parlamentare in un voto al Governo.
Quando le questioni di principio vengono poste su un leggio e vengono comodamente declamate da un pulpito, da che mondo è mondo, inevitabilmente finiscono in carriere e in ogni specie di remunerazione: vengono ridotte ad equivoco mestierante. Per le questioni di principio si muore: come Gramsci, come Falcone, come Borsellino. Morire per affermare un principio è sublime. Uccidere per negare un principio è abominevole. Ma c’è una cosa peggiore dell’abominio. È il contrabbando delle speranze, la ciarla sul dolore altrui, la carriera del mainstream.
Si chiama impostura. In Italia molti hanno votato e fatto votare, hanno vissuto e vivono per l’impostura e di impostura. Almeno per una volta, potrebbero tacere.