Giovanni Sartori, decano dei nostri politologi, editorialista del più autorevole quotidiano italiano, Il Corriere della Sera, intervistato sullo stesso Corriere, alla domanda “Vede talenti politici nell’Italia d’oggi?” risponde “Purtroppo no. C’è solo stata una politica che ha sempre riprodotto se stessa e che ha lasciato che la mafia la infiltrasse. Conosco bene l’Europa occidentale e posso dire che abbiamo il peggior metodo di reclutamento del personale politico del continente”. Nessuno ha contestato il vecchio liberale, intimo di Spadolini, uno dei rari nostri politologi apprezzato nel mondo, anche da diversi presidenti degli Stati Uniti, amico di Kissinger e della Fallaci.
A breve distanza dalla citata intervista, due domeniche fa, su Il fatto quotidiano Gian Carlo Caselli, ex procuratore capo della repubblica di Torino e per anni magistrato di vertice a Palermo, scrive: “Prima Giulio Andreotti, ora Marcello Dell’Utri: l’uno e l’altro dichiarati colpevoli di collusione con Cosa nostra da una sentenza definitiva della Cassazione (rispettivamente fino al 1980 e fino al 1992)”. Proseguendo: “Dunque, un protagonista assoluto della vita politica italiana (Andreotti) e un protagonista decisivo di quella imprenditoriale fattasi poi anche politica (Dell’Utri) … hanno avuto affabili e vantaggiosi rapporti, per nulla sporadici, con una delle più pericolose e sanguinarie organizzazioni criminali mafiose”.
Il tagliente giudizio di Sartori attraversa orizzontalmente mezzo secolo di politica italiana: tutta, senza distinzioni di parti e colori, avrebbe consentito al malaffare e alla criminalità organizzata di penetrarla, intromettersi nei suoi meccanismi di funzionamento (tanto vuol dire “infiltrare”), fare scempio delle istituzioni. Il lungo articolo di Caselli, punta invece il dito contro Berlusconi e il ventennio di centro-destra che, sentenze definitive alla mano, avrebbero intrattenuto frequentazioni affabili, vantaggiose e ripetute con un vertice mafioso tra i più sanguinari. Se i due non sono impazziti, ci stanno dicendo dall’alto di un’indiscutibile professionalità, che almeno mezzo secolo di storia repubblicana è stato condizionato, se non controllato, dal contropotere mafioso. Nessuno, dal presidente della repubblica al primo ministro, ai presidenti delle due camere, ha obiettato, quindi dobbiamo credere che i due siano veritieri.
Da qui qualche osservazione. La prima riguarda il ceto politico: si sente dare del mafioso e non batte ciglio. Un tempo suoi esponenti provavano vergogna e si dimettevano, come fece Garibaldi nel 1880, scrivendo: “Tutt’altra Italia io sognavo nella mia vita, non questa, miserabile all’interno e umiliata all’estero”. La seconda fa chiedere quanto alta sia la probabilità di votare alle europee un candidato in qualche modo colluso con mafia o altro potere criminale, compreso quello espresso da P2 e simili. Per Sartori e Caselli si tratta di probabilità consistente. Quanto si legge sugli appalti per l’Expo di Milano, e sulle vicende di Dell’Utri e Scajola non contribuisce certo a scacciare la spiacevole sensazione che siano nel vero.
Da ultimo, il che fare: se l’Italia è il problema, l’Europa appare l’unica soluzione disponibile. Lo fa capire Sartori. Lo mostra anche Caterina Chinnici, figlia del giudice assassinato dalla mafia nell’83, col proporre “una procura europea contro la criminalità organizzata". Occorre votare per chi vuole più Europa in Italia, sapendo che obiettivamente si schiera contro l’Europa chi vuole perpetuare il sistema di privilegi e confraternite che ha alimentato le nostre storiche arretratezze, mafia inclusa.