Di fronte al verticale crollo di popolarità del presidente Obama, riprendo alcuni ragionamenti pubblicati, nei primi giorni di presidenza, su America Oggi, in articolo inedito per La Voce. Mi chiedevo, nella column del gennaio 2009, quale significato avrebbe potuto assumere l’esperienza in avvio. Puntavo l’attenzione su due questioni: la natura del messaggio politico e civile del presidente Obama, le politiche che Washington avrebbe messo in campo a livello interno e soprattutto internazionale. Ritengo che gli interrogativi che sollevavo, trovino oggi corrispondenza nelle critiche che, in particolare da liberal e radical delusi stanno piovendo sulla Casa Bianca.
Ragionavo, in quei giorni di inizio presidenza, sul fatto che mentre la destra europea era rimasta colpita dall’aspetto razziale del fenomeno Obama, la sinistra sociale si chiedeva quanto avrebbe retto, di fronte al deserto culturale statunitense sul welfare state, il suo progetto di equità, solidarietà, responsabilità verso l’ambiente, aiuto allo sviluppo dei paesi poveri. La risposta la stiamo incassando, visto che poco più del 35% dell’opinione pubblica statunitense gradisce le modalità di realizzazione della riforma sanitaria, e non troppo superiore appare il consenso a politiche economiche che pure stanno producendo occupazione e distribuzione di benessere. Nonostante la sua crisi di crescita. l’Europa continua a voler spendere per welfare e disoccupazione, l’America non ne vuol sentir parlare, sembra.
Un altro aspetto al quale guardavo, in quell’articolo, era il ruolo forte che il federalismo statunitense attribuisce alla figura del presidente, e che l’Europa non prevede. Riflettevo a come nessun governante europeo potesse immaginare di lasciare, nel corso del suo mandato, impronte così pesanti da giustificare messaggi di tipo messianico come quelli che Obama aveva lanciato all’elettorato. Ma è proprio del messianismo promettersi, nel fallimento, la croce: la non realizzazione del sogno promesso genera crocifissione e ammazzamento (politico, e ci mancherebbe!) del presunto messia. Nessun leader europeo potrà essere ritenuto pienamente colpevole dei disastri che si trova a gestire o che genera, essendo espressione di un potere sempre frammentato e di responsabilità condivise. A Washington le cose vanno diversamente: se cade nei consensi, il presidente va in pezzi tirandosi dietro anche il partito che lo ha espresso. Dal che si capisce il timore che i Democratici statunitensi stanno manifestando per le mid term di novembre.
Di aspettative alte verso l’allora neopresidente, scrivevo ad inizio 2009, ce ne erano anche in Europa, per la necessità di superare l’eredità critica di Bush, tra devastazione finanziaria e recessione economica, due guerre aperte, relazioni agitate con molti paesi. Rivendicavo quel rilancio dell’asse atlantico, base della fortuna di europei e americani nella seconda metà del Novecento, che purtroppo l’attuale inquilino della Casa Bianca non avrebbe disposto neppure di fronte alla tracotanza russa in Ucraina. E’ anche alla debolezza del partenariato euro-statunitense che vanno addebitati gli insuccessi in materie essenziali e globali come il mutamento climatico, le migrazioni incontrollate, gli sconvolgimenti armati nel centro del vecchio continente come d’altronde in Medio Oriente e Africa. Il che spiega perché il minimo dei consensi in patria, Obama lo stia raccogliendo proprio in materia di politica estera, con il magro 34% dei sondaggi di questi giorni.