“Avete scommesso sulla rovina di questo Paese e avete vinto”, suona l’epigramma-trailer, retoricamente apocalittico, dell’ultimo film di Paolo Virzì. Ha scommesso sul riscatto di questo Paese, e potrebbe perdere, si può dire di Matteo Renzi, energicamente leggiadro.
C’è una bella differenza. Fra quel sentimento parassitario, presuntuoso quanto è puerile, che si perpetua come fosse vigile sentinella di sapienza politica ed etica, e invece si annida su velenose rendite di posizione ciarliero-propagandistiche e l’incauto ardimento di Renzi, un marziano rispetto a quel sentimento, ai tempi in cui è stato seminato, ai luoghi in cui è germogliato. Si potrebbe dire, semplificando (ma non troppo): la generazione del ’77. Nata vecchia, nella balbuzie violenta con cui ha scandito la mimesi coatta dei fratelli maggiori, a loro volta impantanati nella nevrosi psichedelica e immodesta della loro sedicente soggettività storica. Nati a grandi cose, loro: a capire quello che gli altri non capiscono, a cogliere quello che gli altri non colgono, a distinguere quello che gli altri non distinguono.
Via D’Alema, via Bindi, via Veltroni, via Bersani, via Finocchiaro, via Turco. La sinistra politicamente tetraplegica, intellettualmente liturgica e catechistica, moralmente autoassolutoria, personalmente avida di potere inconcludente. Quella che, senza soluzione di continuità, ha fatto della complessità, a volte tragica, della nostra vicenda sociale, lo sfondo su cui costruire quella velenosa rendita di posizione. Maledicendo l’Italia “antropologicamente diversa”.
L’Italia del boom economico, l’Italia che non “scendeva in piazza a protestare”, l’Italia che in quell’iconografia malata era “gente, gente, gente, non state lì a guardare”. L’Italia che, invece, non era mai stata lì a guardare, e che un bel giorno si ruppe i coglioni, l’Italia di Luigi Arisio, dei quarantamila, dell’emancipazione operaia degli anni ’80, gli anni in cui sorse veramente il nostro Terzo Stato, o middle class, che seppe produrre, imparò a vestirsi riccamente, a consumare, persino a leggere gli Adelphi, l’Italia che negli anni ‘90 venne incriminata per avere scelto la parte giusta del Muro, la parte su cui si rovesciarono, sfacciate e mistificanti, le avanguardie trasformistiche di Mani Pulite. L’Italia che da quella miopia accidiosa, da quella verve postribolare, venne in larga parte risospinta verso il tribunato della plebe di Berlusconi. E, come certamente sapranno anche questi fantasmi ben nutriti, i Tribuni della plebe, sin dalla loro prima istituzione (Leges Liciniae Sexstiae, 367 A .C), possono solo difendere, e mai agire.
Ma via anche Monti, via Letta. Sì, perché questi militanti della presunzione hanno sempre amoreggiato con la erre moscia, con l’inglese cool, con i week-end in livrea, con i simposi in barca. Lo si è visto anche in questa miseria dei segreti bolliti di Freedman. L’inadeguata dirigenza di Forza Italia straparla. Sono ovvie le ragioni per cui si vorrebbe colpire il Presidente Napolitano, sempre reo di non aver eseguito i diktat dell’Italia migliore. Di non aver favorito la lapidazione finale di Berlusconi. Di non aver ossequiato la prepotenza della gogna mediatica, di aver posto sempre un argine allo squadrismo togato: sin da quando, da Presidente della Camera, cacciò il Dott. Gherardo Colombo che si era presentato nella Sede della Sovranità Popolare con uomini armati e in divisa, alla maniera di un caudillo dopo un pronunciamiento (la legalità è proteiforme); sin da quando ricevette e non nascose la lettera-j’accuse di Sergio Moroni; e sino a quando ha osato resistere alle pretese fagocitanti della Procura di Palermo.
L’Italia che non vuole riforme elettorali, che voleva logorare Renzi e invece se lo trova a Palazzo Chigi, che ha deformato il processo penale, imbastardendo la dignità del Diritto, della Magistratura. Ecco, con quest’Italia l’uomo della Leopolda ora dovrà misurarsi. Le tribune sono ancora tutte occupate. Deve stare attento. Attentissimo. Dovrà avere il coraggio di porre la questione europea. In modo equilibrato, per sgonfiare Grillo, che quella stoltezza tumultuante contribuisce a rilanciare, e recidere tristi e ambigue connessioni, che in quei week-end patrizi hanno fin qui celebrato la loro stretta sulla “plebe”. Ma ce la può fare. Se riuscisse, in un colpo solo, potrebbe porsi alla testa di un movimento riformatore, magari di un’inedita Europa Latina (secondo le suggestioni di Alexandre Kojève, rilanciate dal filosofo italiano Giorgio Agamben), in alternativa all’Europa Franco-Tedesca, e ripulire l’Italia dalla sinistra farlocca che tirava sampietrini a Luciano Lama e oggi sdottoreggia, satrapica e lussureggiante, in primetime. Coraggio e auguri.