Vuole garantire lo ius soli ai figli degli immigrati e ha intenzione di restituire il passaporto agli italiani che l’hanno perso. Il ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge sa cosa vuole dire vivere in terra straniera e promette: “Presto avremo una proposta di legge concreta da discutere in Parlamento”.
Arrivata a New York per partecipare a un dibattito sulla Responsibility to protect alle Nazioni Unite, il ministro martedì sera ha incontrato la comunità italiana nel corso di un ricevimento informale organizzato dal Consolato. Ai presenti Cécile Kyenge ha illustrato il lavoro del suo Ministero entrando nel dettaglio delle sue tante deleghe e dell’impegno per la promozione dell’integrazione nelle sue diverse forme: dalle adozioni all’accoglienza dei minori non accompagnati, passando per le politiche giovanili e la lotta al razzismo. Seria e senza sbavature, è andata dritta al punto senza perdersi in proclami da politicante. Dietro un’aria quieta, si nasconde l’animo battagliero di una donna che ha affrontato con orgoglio e coraggio i tanti attacchi razzisti ricevuti dal momento della sua elezione
La VOCE di New York è riuscita a rivolgerle qualche domanda sull’Italia e i suoi percorsi di integrazione. Ma non solo:
Ministro, Lei ha portato avanti in parlamento la proposta per una riforma delle leggi sull’immigrazione che garantisca il cosiddetto ius soli, ovvero il diritto dei bambini nati in Italia da genitori stranieri ad acquisire la cittadinanza. A che punto è questo percorso?
Oggi in Italia abbiamo 5 milioni di persone che non sono cittadini italiani, tra questi abbiamo un milione di minori di cui 600.000 sono nati in Italia ma non hanno la cittadinanza. Per affrontare questa questione abbiamo scelto la via parlamentare e ci sono 20 proposte di legge tra cui sono comprese proposte di diversi partiti politici, una proposta di legge popolare e anche quella degli italiani all’estero. A giugno una commissione ha iniziato ad analizzare queste proposte e nei prossimi mesi preparerà una sintesi da cui verrà un testo che comprenderà questo percorso di confronto.
Al momento il modello che sta prendendo maggiormente piede è quello dello ius soli temperato (così definito in opposizione allo ius soli secco che è quello che avete voi qui negli USA) che tiene conto del percorso di integrazione compiuto dai genitori e che consente di chiedere la cittadinanza alla nascita del bambino, a patto che i genitori abbiano compiuto un percorso di integrazione sul territorio.
Che tipo di percorso di integrazione?
Per esempio un certo numero di anni di permanenza in Italia. Secondo alcune proposte dovrebbe bastare un anno, secondo altri potrebbero ricevere la cittadinanza i figli di immigrati residenti in Italia da almeno cinque anni.
E per quanto riguarda quegli italiani che hanno perso la cittadinanza?
Mi fa piacere che il progetto per la riforma sulla cittadinanza si sia allargato anche agli italiani all’estero. Il merito è dei deputati eletti nei collegi esteri che hanno presentato una proposta per restituire la cittadinanza a quegli italiani che l’hanno persa, per esempio, perché si sono sposati con una persona di un paese che non riconosce la doppia cittadinanza. E tra questi ci sono soprattutto tante donne per cui è importante poter riavere il passaporto italiano. Poi ci sono altri casi di persone che hanno perso la cittadinanza per via di una legge del 1912. Non è possibile che queste persone non possano definirsi italiane. È importante che finalmente se ne parli.
Lei è un esempio del fatto che la politica possa essere parte di un percorso di integrazione sociale. Ma è difficile per i nuovi italiani entrare nella politica italiana? E pensa che il suo caso, con tutti gli attacchi a cui è stata esposta, possa aver scoraggiato qualcuno?
No, non penso che possa aver scoraggiato chi vuole fare politica, anzi. È importante che anche la politica si sappia aprire a percorsi di integrazione. Per esempio, dopo anni di lotte, nel Partito Democratico è stato creato il Forum Immigrazione che ha accolto tutti questi nuovi cittadini che avevano voglia di impegnarsi in politica. E il PD ha permesso anche a chi non aveva la cittadinanza di votare all’interno del partito. È importante che un partito, per statuto, conceda il diritto di voto a chi quel diritto, a livello nazionale, non ce l’ha. Il percorso che noi abbiamo fatto con il Forum Immigrazione ha avuto il risultato di proporre due candidati per il parlamento, di cui uno ero io. In questo modo il partito è diventato un laboratorio di cittadinanza e partecipazione.
Qui negli USA si è da poco celebrato l’anniversario del famoso discorso di Martin Luther King, I Have a Dream. Pensa che quel discorso possa avere ancora una sua attualità qui o in Italia?
Pochi giorni fa abbiamo avviato a Venezia un progetto denominato proprio I Have a Dream. L’impressione è che i giovani italiani abbiano smesso di sognare, che non abbiano più fiducia e a noi invece piacerebbe farli ricominciare a sognare. Così il mio ministero ha sostenuto questo progetto creato dal garante per l’Infanzia in cui si chiedeva ai ragazzi di inviare i propri sogni perché si voleva capire cosa sognano i giovani italiani. La cosa che stupisce è che molto spesso sognano cose davvero semplici, essenziali come luoghi d’aggregazione. Questo mi ricorda che l’impegno del mio ministero è di fondare le politiche giovanili, come anche quelle dell’integrazione, non solo su elementi economici e sul lavoro, ma anche sulla cultura.
A proposito di giovani, all’evento al Consolato ha partecipato anche un gruppo di giovanissimi cittadini americani che ha preso parte agli ultimi Giochi della Gioventù in Italia (nella foto a destra). Il ministro Kyenge, infatti, punta molto sullo sport come strumento per la promozione dell’integrazione e sogna di eliminare la violenza dagli stadi e dai giocatori stessi. Nello sport, così come in altri ambiti della società, il ministro ritiene che il modo migliore per fare politiche sull’integrazione sia togliere la g: “Perché a quel punto diventa interazione che è l’obiettivo principale del mio ministero: il confronto e la conoscenza di altre culture”.
Oggi il ritardo del suo aereo (non era un volo Alitalia, ha tenuto a ricordare il console, Natalia Quintavalle) ha impedito al ministro di andare a visitare il memoriale dell’11 settembre, un omaggio a cui teneva molto. Ma domani, prima di andare all’ONU, Cécile Kyenge assisterà alla performance The Table of Silence al Lincoln Center. Poi tornerà in Italia, dove alcuni tra i presenti all’incontro di martedì le hanno chiesto di recapitare un messaggio al ministro degli esteri: non chiudete il consolato di Newark (una vicenda, questa, di cui vi racconteremo presto).

Il ministro C├®cile Kyenge con il console generale, Natalia Quintavalle (a sinistra)
Intanto a New York il console generale Natalia Quintavalle ha espresso la propria gioia per la visita del ministro: “Siamo contenti di poterle far conoscere una collettività che è espressione di un’integrazione riuscita. Riuscita a prezzo di sacrifici, della volontà di integrazione di chi arrivava dall’Italia, ma anche della capacità di accoglienza di questo paese”. Speriamo che dell’Italia si possa presto dire lo stesso.