Dalla rielezione al caso kazako: Napolitano, wannabe Charles De Gaulle?
Gustavo Zagrebelski, Marco Travaglio, Barbara Spinelli. Da ultimo, oggi, l’ex presidente della Camera, Fausto Bertinotti. Sono davvero poche le voci che, in Italia, si spendono per denunciare lo stato di democrazia sospesa o sotto-tutela Uno stato che dura dal 20 aprile, giorno in cui un Parlamento impotente e incapace si è riconsegnato nelle mani del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e del suo staff di esperti. Certo, la mossa disperata con cui nell’autunno del 2011 Mario Monti diveniva, in un lampo, senatore a vita (per quali meriti?) e poi presidente del Consiglio, già rappresentò un primo strappo. Che però si inseriva nel solco dei governi tecnici o del presidente promossi prima da Oscar Luigi Scalfaro e poi da Carlo Azeglio Ciampi. È tuttavia con la rielezione di Giorgio Napolitano che si è assistitito ad una prima profonda lacerazione del quadro costituzionale. Certo, nessuna norma della costituzione parla di divieto di “rielezione” del capo dello stato. Ma l’articolo parla di elezione, non di ri-elezione. Particolare non da poco. Che quasi nessuno prende la briga di ricordarci. Fu peraltro Ciampi ad opporsi alla sua conferma al Quirinale nel 2006, ricordando che “nessuno dei precedenti presidenti della repubblica è stato rieletto”. Ed aggiungendo che “il rinnovo di un mandato lungo, qual è quello del settennato, mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana dello Stato”.
Dal giorno della sua rielezione, il presidente della Repubblica si è assunto la responsabilità di una serie di atti, pronunciamenti ed esternazioni che hanno chiramente collocato l’intepretazione del suo mandato aldilà dei limiti definiti dalla costituzione repubblicana. La nomina dei saggi per le riforme politiche e costituzionali fu un primo abuso. Un meccanismo inedito e incostituzionale per preparare il Parlamento –appena eletto e già esautorato – all’accordo su un esecutivo condiviso a partiti tra loro antagonisti. Gli stessi saggi, in un formato più ampio, sono stati chiamati ad innescare un meccanismo di riforma della Costituzione che nulla ha che vedere con quanto sancito dall’articolo 138 e che assegna al parlamento la guida del processo di revisione della carta.
A queste gravi decisioni è seguito il caso scioccante degli F35. Quando il presidente della Repubblica, in qualità di capo del Consiglio Supremo di Difesa, ha negato che il Parlamento potesse formulare un parere vincolante sulla possibile decisione del governo di procedere all’acquisto dei caccia militari F35, mezzi destinati a mutare irreverisibilmente il concetto operativo dell’areonautica italiana. Il tentativo maldestro di impedire il Parlamento di incidere sull’indirizzo politico dell’esecutivo – e su un scelta così importante – ha rappresentato un secondo passaggio velenoso di rottura dell’ordine costituzionale.
L’altrettanto velenosa ciliegina sulla torta si è avuta con i toni minacciosi – difficile trovare altri aggettivi per definirli – con cui il Qurinale ha cercato di neutralizzare le fibrillazioni scoppiate all’interno della maggioranza di governo in seguito a quel capolavoro di incapacità, ignoranza e inefficienza che è stato il caso Shelabayeva. Nei giorni successivi alla questione kazaka, Napolitano ha messo in guardia il Parlamento dallo “staccare la spina al governo” e scatenare così “contraccolpi irrecuperabili”, suscettibili di minacciare quella (finta) stabilità che l’Europa ci chiede e che possiamo garantire con un’innaturale alleanza che rimanderà ancora le scelte politiche più importanti.
Con la sua uscita delle scorse settimane, il presidente della Repubblica ha congelato il dibattito politico e ribadito con durezza il formato del solo governo possibile: per il Qurinale, quello fondato sull’intesa tra Partito democratico, Popolo delle libertà e Scelta civica. Tra le righe, il presidente Napolitano ha ipotizzato lo scioglimento delle camere o anche le sue dimissioni. In caso di crisi, suo compito primario sarebbe invece quello di verificare nuovamente in Parlamento la possibilità di altre ipotesi di governo. Non più Re Giorgio dunque, ora l’ispirazione è Charles De Gaulle, il leader della resistenza europea artefice del passaggio della Francia alla Quinta repubblica Proprio il nostro riferimento polemico a De Gaulle ci fa capire meglio. La dottrina e gli esperti di diritto parlano di due costituzioni. Costituzione formale, quella scritta, leggibile, articolo per articolo. Comma per comma. E la Costituzionale materiale, ovvero la dinamica dei rapporti tra organi costitutuzionali e partiti politici e dal modo in cui questi determinano l’assetto dello stato. Costituzione formale e materiale tendono naturalmente a divergere. Proprio perchè quella materiale è in continuo divenire, attraverso nuove leggi ed una giurisprudenza che muta e si evolve. Nella dialettica tra Costituzione formale e materiale che si è aperta con la nascita dei primi governi tecnici, la divergenza è stata sempre limitata dalla chiara riconoscibilità del Parlamento come istituzione centrale del sistema repubblicano. Ora, questa riconoscibilità non c’è più. E viene abbattuta un po’ alla volta, giorno dopo giorno, dal 20 aprile scorso.
A confronto delle storiche picconate di Francesco Cossiga al sistema dei partiti, i bulldozer del Presidente Napolitano danno bene l’idea di una demolizione inesorabile delle basi parlamentari della nostra forma di governo. Certo, il governo Letta è nato con l’investitura delle Camere. Ma il Presidente della Repubblica interviene ormai quotidianamente nel dibattito politico italiano con atti e pronunciamenti che definiscono i contorni di un’altra costituzione. E di un’altro regime politico. In cui i poteri del Quirinale sono tanto più estesi e illimitati in quanto non scritti e codificati in un testo formale.