Dunque: la Cina, o meglio la dirigenza del Partito Comunista Cinese decreta, senza possibilità di appello, che l’università di Hong Kong rimuova quello che definisce il “Pilastro della vergogna”: una scultura di quasi nove metri che rappresenta una cinquantina di corpi e di visi stravolti da paura e dolore; un’opera realizzata dal danese Jens Galschiot, per ricordare la strage alla piazza Tienanmen del 1989. Lo scultore ha incaricato un avvocato di mettere al sicuro l’opera, e poterla riportare in Europa. “Spero che la mia proprietà sarà rispettata e che sarò in grado di portarla via da Hong Kong senza che subisca alcun danno”. L’ordine di sfratto è giunto attraverso una lettera indirizzata ai leader della “Hong Kong Alliance in Support of Patriotic Democratic Movements of China”, un’organizzazione pro-democrazia fondata durante le proteste di piazza Tienanmen; questo movimento ha ricevuto la statua in prestito permanente dal suo autore. Nella lettera si comunica che la scultura, se non verrà prontamente rimossa, sarà considerata “abbandonata” e trattata nel modo che i dirigenti dell’università riterranno più opportuno. Si chiederà, chissà, una consulenza a quei fanatici mascalzoni che hanno abbattuto i Buddha di Bamiyan in Afghanistan: le due enormi statue alte 53 e 38 metri, risalenti una a 1800 anni fa, l’altra, più “giovane”, con 1500 anni sulle spalle. Il 12 marzo 2001 i Taliban nella loro fanatica furia iconoclasta, le hanno distrutte.
Pare sia uno sport transnazionale, quello di abbattere le statue; “rito” odioso, quale che possa essere la motivazione che si accampa per farlo; e tanto più se non lo si fa nell’immediato di un evento particolare: abbattere le statue dei leader del comunismo o del fascismo o del franchismo, quando i regimi cadono, si può comprendere. Altra cosa è chiedere (ed ottenere) la rimozione delle statue che ritraggono Cristoforo Colombo o Winston Churchill. Perché a questo punto non abbattere anche sculture e opere che ritraggono gli antichi romani certo non meno “colpevoli” dei generali confederati. Eppure tutto il mondo, compresi tantissimi americani, rimangono estasiati di fronte a quello che resta dell’impero romano: che in quanto a imperialismo e arroganza del potere non aveva da invidiare da nessuno…
Queste e altre sdegnate considerazioni si accinge a svolgere l’imbrattacarte che pur avendone viste parecchie, in una quarantina d’anni di professione, ancora coltiva qualche curiosità e stupore. Ed ecco che arriva una notizia che mette in crisi tutto lo schema costruito. Perché si tratta di una censura certo molto meno grave, ma sintomo di miopia, di intolleranza, diciamo pure di imbecillità arrogante di segno simile. Più grave, anzi, venendo da un Paese amato, dal quale ci si attende (illusione?) il meglio e di più.

I Rolling Stones eliminano uno dei loro più grandi successi, “Brown Sugar”, dalla scaletta dei concerti negli Stati Uniti. La decisione dopo le critiche alla canzone per riferimenti alla schiavitù e al sesso con donne nere. Questo nonostante Mick Jagger, autore del testo della canzone nel 1969 negli studi di Muscles Shoals di Sheffield, in Alabama, rivolga aperte critiche nei confronti degli schiavisti. Keith Richards, chitarrista della band, intervistato dal Los Angeles Times, non nasconde il suo stupore; “Brown Sugar”, spiega, è un brano che suonano dal vivo dal 1970, pubblicato l’anno dopo nell’album “Sticky Fingers”: “Non hanno capito che questa era una canzone sugli orrori della schiavitù?”.
Accreditata a Richards e Jagger, “Brown Sugar” è scritta in massima parte da quest’ultimo nel 1969, in meno di un’ora di lavoro, mentre è impegnato nelle riprese di un film diretto da Tony Richardson, “I fratelli Kelly”. Gli Stones la eseguono in oltre un migliaio di concerti in tutto il mondo per cinquant’anni. Poi arrivano le prime bordate; per il produttore Ian Brennan è criticabile che i Rolling Stones “continuino a suonare e trarre profitto” dalla canzone che secondo lui glorifica la schiavitù, lo stupro, la tortura e addirittura la pedofilia. Che un “Uffa!” li sommerga tutti.