Silenzio tra il pubblico. Passato e presente parlano, con una sola voce, di un solo tema: mafia e ‘ndrangheta. Due le protagoniste. Un magistrato, Carla Del Ponte, procuratore pubblico svizzero, già collaboratrice di Giovanni Falcone nelle inchieste contro Cosa Nostra, quindi nei processi contro i crimini nell’ex-Jugoslavia ed in Siria. Insieme a lei un’altra donna coraggio: Dina Lauricella, palermitana e specializzata in argomenti di mafia, pluripremiata giornalista di inchiesta, volto notissimo della televisione italiana e storica collaboratrice dei programmi di Michele Santoro, coscienza critica della nostra politica nazionale. Occasione dell’incontro: il festival culturale Endorfine, Lugano, Svizzera, in passato terra prediletta dal denaro senza nome. Presente in sala: la società civile, attenta ad ascoltare ciò che ufficialmente si ignora.
Questa la breve cronaca di un pubblico dibattito ma che ci introduce alla conversazione che poi abbiamo fatto con Dina Lauricella.
Sino agli anni Ottanta del secolo scorso, hanno ricordato le relatrici, la mafia era generalmente intesa come un fenomeno nascosto e folcloristico ma che poi è esploso in una stagione di omicidi: seicento, ad inizio degli anni Ottanta. Con l’arrivo di Giovanni Falcone, il magistrato che intuì di seguire la traccia dalle movimentazioni bancarie, si scoprì che la mafia era inserita nella società civile come una società di servizi. Oggi questo fenomeno è trascurato dalla politica e dalle attenzione mediatica. Ma non dalla magistratura, grazie alla rete di relazioni personali rafforzatesi nel tempo tra gli organi inquirenti, proprio grazie alla tecnica investigativa di Falcone: condividere una perfetta conoscenza delle fattispecie criminali per meglio affrontare le complessità del rapporto con gli accusati.
Ora, a che punto siamo? Alla mafia siciliana si è sostituita la ‘ndragheta calabrese. Quest’ultima non si espone in pubblico. Piuttosto, si regge su un reticolo di strettissimi legami di parentela, frutto di matrimoni incrociati che portano le donne a vivere in una posizione subordinata agli obiettivi delle famiglie, oltre che ad ostacolare la collaborazione con la giustizia. Il risultato é sotto gli occhi di tutti: le cronache parlano di queste attività criminali solo quanto necessario, specie in un periodo come quello attuale dove invece la crisi economica conseguente alla pandemia sta offrendo spazio alla criminalità.
“Cosa fa lo stato italiano per aiutare le aziende? Purtroppo nel nostro paese esistono parti che sono dimenticate, anche perché manca un sistema di welfare”, ha ricordato Lauricella che ha proseguito ricordando di avere avuto intimidazioni cui fortunatamente ha resistito grazie alla sua visibilità mediatica.
Abbiamo avvicinato Dina Lauricella per chiederle innanzitutto come riassumere, alle persone estranee alle società criminali, il disagio che queste portano alla società civile?
“Sbaglia chi crede di vivere lontano da queste realtà. Purtroppo non esiste luogo, ambiente o città che non sia contaminato dalla subcultura mafiosa e dagli interessi delle mafie. Quindi il problema della corruzione, che può essere associazione organizzata di stampo mafioso o semplice corruzione, si è evoluto in sistemi criminali che hanno imparato il metodo mafioso, in qualche modo se ne sono appropriati ed ora ne fanno uso. A mio avviso non esiste parte della società civile che si salvi. Il problema del nostro paese rimane la corruzione. Difficilmente faremo un passo in avanti, verso il futuro, sinché non ce ne libereremo. Ripeto: sbaglia chi crede di esserne estraneo, magari perché svolge una professione che lo tiene lontano da certi ambienti. E’ un errore. Perché tutto ciò che non funziona nella vita del nostro paese in qualche modo è legato a problemi che gravitano attorno alla corruzione”.
E’ mai stato fatto un calcolo in termini economici di quanto la criminalità incide sulla società?
“Ci sono delle stime secondo cui le attività “legali” della mafia equivalgono quasi al tre percento del prodotto interno nazionale italiano-PIL, cioè il valore complessivo dei beni e servizi prodotto dallo stato. Se queste sono le attività “legali”, si può immaginare a quanto arrivi il valore di quelle illegali, come lavoro nero o denaro sporco, che rimangono comunque difficilissime da dimostrare”.
Una giornalista di inchiesta come convive con il peso, con la responsabilità di quanto viene a scoprire nel suo lavoro?
“Il peso si vive solo quando non si riesce a raccontare ciò che siamo venuti a sapere. Il giornalista appena scopre una notizia ha il dovere di raccontarla. Nella nostra professione il problema di coscienza nasce quando si ha difficoltà a trovare uno spazio per raccontare un fatto. Nella mia esperienza professionale ho avuto la fortuna di lavorare con un giornalista come Michele Santoro che nel corso degli anni ha sempre raccontato storie di mafia, senza curarsi degli ascolti, della audience. Dicono che in televisione la mafia non sia seguita. Non è vero e lo ricordano gli sceneggiati, le fiction che parlano di mafia e sono seguitissime. Ciò che invece credo si debba cambiare è il modo in cui i media parlano di mafia. Dovremmo imparare a raccontare le cose in modo più appetibile, oltre che essere più presenti sull’argomento. E’ impensabile parlare di mafia solo con brevi notizie di cronaca, o limitarsi alle ricorrenze, agli anniversari, alle rievocazioni del passato”.
Effettivamente ricordi spesso che gli organi di informazioni parlano di mafia solo come un fenomeno commemorativo…
“E’ vero: ridurre la mafia ad un fenomeno commemorativo equivale a nascondere che oggi mafia e ‘ndrangheta rimangono un problema e continuano ad espandersi. Per esempio la ‘ndrangheta investe all’estero molto più di quanto non investa in Italia. Fuori dai confini nazionali mancano le norme che abbiamo nel nostro paese. Ecco perché, in assenza di normative di contrasto, paesi come ad esempio Germania, Olanda oppure la Svizzera diventano territori appetibili per la criminalità. In assenza di leggi almeno simili a quelle italiane, che nello specifico addirittura prevedono il reato di concorso esterno alla criminalità organizzata, purtroppo mafia o ‘ndrangheta trovano libertà di investire. Per quanto riguarda il continente americano purtroppo non ho esperienze che abbia seguito in modo particolare. Tuttavia rimango del parere che non esista territorio che si salvi da questi fenomeni criminali”.
A parte il tuo vissuto personale e familiare, cosa ti muove a seguire questo tipo di argomenti?
“Sarò sincera: l’amore per il mio paese, la voglia di cambiare, e la convinzione che la società civile è pronta ad impegnarsi per cambiare. Io mi sento figlia della “primavera di Palermo”, di quel sentimento popolare che tra gli anni Ottanta e Novanta ha promosso una cultura della legalità, che dopo la stagione delle bombe ha fatto rialzare la testa ai siciliani e rifiutare un passato di violenze. Sono convinta che questo cammino può essere ripreso. Tuttavia la società civile da sola non può fare molto, ed altrettanto i magistrati. Da solo nessuno può fare molto. Ecco perché è indispensabile la attenzione della politica e del modo dell’informazione. E’ fondamentale rimettere la mafia al centro della narrazione dei media e della agenda della politica. Sinché questo non avverrà purtroppo prevedo che non ci saranno nuove “primavere” in Sicilia”.
Mobilitando stampa, politica, e giornalismo di inchiesta dunque la società è pronta ad accogliere il nuovo mondo per il quale voi state lavorando?
“Ne sono assolutamente certa. La gente desidera un cambiamento. Non tutta la società civile è piegata alla mafia. Molti vogliono una reazione e non debbono essere lasciati soli. Il mio contributo giornalistico, la mia voglia di raccontare, pur con tutti i suoi limiti, intende proprio dare fiducia a queste persone e riportare l’attenzione dei media su questi temi. Ed è proprio qui che il mio lavoro continua, e continuerà, e spero che porti i suoi frutti”.
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