Tra qualche anno sapremo se il 2020 sia stato un anno di grande sventura: siamo a mezzo milione di morti nel mondo causa COVID-19 e non è finita, oppure anche un momento di rinascita. Come in tutte le guerre, ci sono le fasi drammatiche ma poi anche la ripresa, una vita nuova da reinventarsi. Anche la tragica morte di George Floyd, una delle tante violenze ingiustificate di questi anni, può essere vista in chiave positiva se finalmente questo grande paese che sono gli United States of America potrà accettare le responsabilità del proprio passato e creare un mondo nuovo dove la diversità è una virtù e non qualcosa di cui avere paura.
Io sono positivo e credo che stiamo vivendo un periodo epocale, nel male come nel bene. Osserviamo dei cambiamenti in corso in termini di comportamenti e sappiamo che non si tornerà mai più indietro: viaggiare, acquistare, socializzare, imparare sono abitudini cambiate per sempre. Si vede chiaramente un maggior interesse per i grandi problemi dell’umanità, dal climate change all’accesso ai servizi medici per tutti, che possono essere risolti solamente a livello globale, con un maggior rispetto per un approccio scientifico nato dalla consapevolezza dell’approccio più o meno fallimentare a questa pandemia nei vari paesi.
Questo ci porta a parlare di social media, non perché sia importante come business ma perché è il luogo più di ogni altro dove si formano opinioni, il campo da battaglia dei nostri leader (sarebbe mai esistito Trump senza Twitter? E BLM senza la diffusione di quel media?) e dove in questi anni abbiamo visto più odio, discriminazione, fake news e disinformazione che di quegli ottimi propositi iniziali di riorganizzare e distribuire la conoscenza del mondo intero (Google), oppure di creare comunità e diventare una forza di unione (Facebook). Direi che è successo l’esatto opposto ed è una bella lotta a decidere chi tra i vari attori in questo settore abbia vinto questa lotta al ribasso, fino a ieri il perdente era Facebook ma per il futuro si vedrà.

Però, tutto di colpo, anche qui iniziamo a vedere cambiamenti epocali. E dico epocali perché in soli 20 anni il social media ha davvero cambiato il mondo, decidendo cosa è importante e cosa non lo è, e ora il mondo sta riprendendosi il controllo dei social media. Ha iniziato Twitter qualche settimana fa, iniziando a prendersi pubblicamente delle responsabilità per i contenuti che diffonde, e la reazione violenta di Trump sta a indicare che qualcosa è cambiato davvero. È un po’ surreale vedere il presidente lottare per difendere la libertà di Twitter di diffondere qualsiasi contenuto, non per difendere la libertà di opinione del mezzo ma per poter continuare a postare i suoi messaggi, non importa se veri o meno, razzisti, incitando all’odio o alla violenza. Ha poi continuato Google dove una lotta di due anni e più si è conclusa con la loro accettazione che i vari specialisti di Brand Safety possono riportare dati e raccomandazioni ai brands, i loro clienti, senza il permesso e il controllo di Google stessa, accettando che l’anello non deve per forza essere controllato dal lupo! Una grande vittoria per una piccola società come OpenSlate contro un vero gigante.
Ed è di queste ore la reazione di Facebook al boicottaggio “Stop hate for profit”, iniziato da un gruppo Twitter chiamato “Detox Facebook” e che è iniziato ufficialmente il primo Luglio. Anche Nick Clegg, potente ministro degli esteri di Facebook, ed ex vice Primo Ministro inglese nonché ex capo del partito LibDem, è sceso in campo per alleggerire la situazione, ma minimizzare il problema non è servito a risolvere niente.
Il movimento è ormai supportato da più associazioni incluse la NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) e la ADL (Anti Defamations League). Il chart della investment bank Luma Partners ci ricorda quali brand abbiano deciso di disinvestire dalla piattaforma finché i problemi di disinformazione non saranno risolti, e siamo solo agli inizi perché molti altri seguiranno (Adidas, Ford e Clorox si sono aggiunti negli ultimi minuti). Facebook non è preoccupata dal danno economico, forse neanche dal fatto che molti utenti abbandonino la piattaforma o la usino con minore frequenza: sono però terrorizzati che tutto questo rumore acceleri un processo di regolamentazione del loro business da parte dei governi europei e dagli Stati Uniti, sia in termini di controllo dei loro contenuti che da un punto di vista di tassazione a livello di paese, oggi irrisoria. La vera paura di Facebook è di essere riclassificato non come una piattaforma tecnologica ma come un editore che è responsabile legalmente per i contenuti che pubblica (come del resto anche YouTube di Google, Twitter e tanti altri). Facebook sta adesso facendo marcia indietro su molti temi che in un recente passato non voleva nemmeno discutere: Mark Zuckerberg solo pochi giorni fa sosteneva che non possono diventare Il decisore finale su cosa sia giusto o sbagliato. Ed oggi, direi inaspettatamente, hanno invece annunciato un nuovo approccio alle loro regole sui contenuti che distribuiscono, proibendo contenuti che contengono messaggi di odio, violenza, disinformazione e marchiando con chiarezza quelle notizie che vanno pubblicate, per esempio i messaggi di Trump, ma che o sono false o sono tendenziose. Direi che dopo aver espresso tante critiche di sono poi avvicinati all’approccio Twitter.

Il tema centrale rimane questo: piattaforma tecnologica o mezzo di comunicazione? La seconda opzione mette Facebook, e tutti i social media, sullo stesso piano degli altri editori, con le stesse responsabilità. A mio parere questa è l’unica alternativa possibile ed una decisione non più rinviabile. Si tratta di un cambiamento abbastanza drammatico con mille implicazioni organizzative, investimenti necessari, una nuova cultura ed organizzazione da reinventarsi e ricostruire. Niente che una società valutata in borsa più di 600 miliardi di dollari non possa permettersi, magari riducendo la sua valutazione come conseguenza (Google è valutata più di 900 miliardi e per fare un paragone Il gruppo Volkswagen con 12 brand diversi incluso Audi, Porsche, Seat, Lamborghini e Bentley è valutato meno di 80 miliardi di dollari, 10 volte meno di Google e più di 7 volte meno di Facebook). L’alternativa è un intervento governativo che potrebbe spezzettare il monopolio di questi giganti (chi si ricorda lo spezzatino di AT&T nel 1984 e la creazione delle Baby Bells?), oltre a regolamentarlo. Pensate al search di Google separato da YouTube, Nest, Waze, o dal loro Cloud business, oppure a Instagram, WhatsApp, Messenger e Oculus separati da Facebook. Sarebbe una bella rivoluzione ma è discutibile se questo sia il modo migliore per proteggere i cittadini-consumatori.
Del resto, la volontà popolare è chiara. Un survey di Kantar Dimension a maggio riportava che il social media è il mezzo di comunicazione di cui la gente ha meno fiducia. Un altro survey di qualche giorno fa, questa volta di Edelman, il più grande gruppo di PR al mondo, conferma che il 62% del campione crede che i brand, non i governi o i mezzi di comunicazione, giocano un ruolo critico per affrontare le sfide del futuro; il 44% li ha addirittura scelti per come si sono comportati durante la pandemia. Tutto indica che il cambiamento è necessario, e che lo è precisamente adesso, in un nuovo mondo che è agli inizi e che non ha bisogno di una opinione pubblica educata da società assetate di potere economico, che giocano al di fuori di quelle regolamentazioni che ogni altro mezzo di comunicazione deve accettare.