C’è un dettaglio del discorso con cui Donald Trump ha proclamato l’emergenza nazionale che ha fatto particolarmente discutere: parlando con i giornalisti alla Casa Bianca, il Presidente ha infatti “candidamente” ammesso che avrebbe potuto benissimo aspettare per poter ottenere i fondi necessari alla costruzione del suo muro, ma, semplicemente, non voleva più farlo. Un’affermazione che la stampa, ma anche la stessa speaker della Camera Nancy Pelosi, hanno preso come un’avventata gaffe del Commander-in-Chief, che in pratica stava ammettendo la totale infondatezza della dichiarazione di emergenza nazionale: che emergenza è, se la risposta ad essa avrebbe in effetti potuto attendere?
Eppure, come spesso accade quando si tratta di Trump, il confine tra gaffe e strategia è particolarmente sottile. Difficile pensare che il Presidente si sia lasciato scappare un lapsus tanto eclatante, servendo su un piatto d’argento ai giornalisti proprio quello che la stampa voleva dimostrare sin dall’inizio. Pensiamo, piuttosto, che la sua avventata dichiarazione debba essere inserita in un quadro più ampio, più complesso, che interseca anche le indagini in corso sul Commander-in-Chief, e che proveremo a spiegarvi nelle prossime righe di questa analisi.

Iniziamo con il dire che la dichiarazione dell’emergenza nazionale deve essere considerata uno spartiacque della presidenza Trump. Fino ad ora, il miliardario newyorkese aveva fatto discutere con provvedimenti spesso accusati di essere al limite della costituzionalità – come il travel ban –, e ci aveva abituati a una propaganda infuocata e a continui attacchi contro la libertà di stampa. Ma con l’assunzione di poteri straordinari per poter aggirare il Congresso e finanziare il muro, il Presidente ha fatto un passo ulteriore nello sferrare un colpo alla Carta Costituzionale. E lo avrebbe fatto, secondo chi scrive, accompagnato dall’intenzione di tastare il terreno, e capire fino a dove potersi spingere prima di trasformare in protesta il sopore degli americani. Protesta che non è scoppiata neppure dopo la sua “ammissione” che l’emergenza nazionale, in effetti, non c’è.
Certo: in occasione del President’s Day, qualche manifestazione è pure andata in scena in alcune città degli Stati Uniti, come Chicago e Washington DC, ma senza portare in piazza i numeri che legittimamente ci si sarebbe potuti attendere. La sensazione è che la strategia di Trump abbia, fin qui, funzionato: abituare l’opinione pubblica a colpi di teatro, dichiarazioni avventate, veri e propri attacchi a valori essenziali per la democrazia americana, spingendo sempre più in là l’asticella della giustificazione, della legittimazione, dell’indifferenza. Il Presidente sembra aver addomesticato gli americani ai suoi eccessi, alle sue forzature, barricandosi dietro all’immagine, sapientemente costruitasi sin dalla campagna elettorale, dell’outsider politicamente scorretto che punzecchia l’establishment, che ne svela le ipocrisie, che dice quello che tutti pensano e nessuno ha il coraggio di esternare, che legittima i più biechi istinti e li stimola, li provoca. Il tutto, con la complicità dell’informazione, che, tenendo perennemente puntati su di lui i riflettori, ha finito per smorzare la propria influenza e la propria credibilità, e la stessa portata dell’ininterrotto flusso di notizie riferite al Presidente.

Quest’ultimo, poi, a piccoli passi ha saggiato il terreno, spostando sempre di qualche centimetro più in là la soglia di tolleranza dell’opinione pubblica: le accuse di sexual harassment da parte di varie donne nei suoi confronti, lo scivolone con Stormy Daniel e i soldi sborsati per farla tacere, la pericolosissima retorica generalizzante sui migranti provenienti dal Centro e Sud America, dipinti come stupratori, assassini e criminali, la “candida” ammissione di fidarsi più di Putin che dell’FBI, i sospetti, sempre più solidi in realtà, di una sua collusione con la Russia, con addirittura l’ex vicedirettore dell’FBI Andrew McCabe che ha dichiarato che “è possibile” che Trump sia una spia russa, “ed è per questo che abbiamo iniziato le indagini”. Si prenda quest’ultimo caso: come è possibile che la rivelazione dell’ex numero 2 dell’FBI secondo cui l’agenzia considerò di invocare il 25esimo Emendamento per estromettere il Presidente abbia poi fatto poco più del solito rumore, ma non abbia provocato una decisa levata di scudi da parte dell’opinione pubblica e dell’opposizione? Dal canto suo, il Commander-in-Chief sa perfettamente di poter facilmente esorcizzare ogni materiale potenzialmente dannoso che esce su di lui con due paroline magiche: “Fake News”.

A questo quadro si aggiungano due notizie delle ultime ore. La prima: secondo un’approfondita inchiesta del New York Times, Trump avrebbe chiesto a Matthew G. Whitaker, allora da lui neo-nominato ministro facente funzione della Giustizia, di affidare a Geoffrey S. Berman, da alcuni mesi procuratore per il Distretto Sud di New York e alleato del Presidente, l’indagine con cui i procuratori federali di Manhattan stanno disturbando i sonni del Commander-in-Chief dopo aver perquisito e sequestrato i suoi documenti nell’ufficio del suo ormai ex avvocato Michael Cohen. Un’indagine considerata quasi più insidiosa di quella di Mueller, che, alla fine dello scorso anno, ha tra le altre cose raccolto evidenze sulle donne che sarebbero state ridotte al silenzio dietro lauti pagamenti durante la campagna elettorale del 2016. Ma ci potrebbero essere, già nelle mani dei procuratori federali, altre documentazioni ancora più scottanti, come i rapporti finanziari di Trump con entità straniere. E c’è chi pensa che il tempismo della dichiarazione dell’emergenza nazionale sia stato tutt’altro che casuale, ma studiato anche e soprattutto per distogliere l’attenzione generale da questo grattacapo non da poco.
Altra notizia, il fatto che Clarence Thomas, giudice conservatore da 29 anni nella Corte Suprema, ha contestato il precedente della sentenza New York Times vs. Sullivan (1964), pietra miliare per la disciplina che regola la libertà di stampa negli Stati Uniti, che ha sancito la necessità, per chiunque ricopra una carica pubblica o elettiva, di provare la “malizia” dell’avversario per poter intentare e vincere cause contro organi di stampa e non solo. Un principio che il giudice Thomas ha dichiarato agli altri giudici di voler smantellare, seguendo l’intenzione espressa dallo stesso Presidente nel gennaio 2018.

Notizie del genere restituiscono l’idea di come il Commander-in-Chief si stia spingendo sempre più in là nel forzare le garanzie costituzionali concepite dai padri fondatori a difesa e protezione della democrazia. Un processo che, con le dovute cautele e le innegabili differenze storiche, non può non ricordare diversi casi in cui figure autoritarie hanno fatto del potere, affidato loro dal popolo con mezzi democratici, un’arma da brandire contro le Costituzioni e la stessa democrazia. È stato detto che la libertà muore sotto scroscianti applausi, ma come si è fatto notare già su questo giornale, anche il torpore, la rassegnazione, l’abitudine, la sottovalutazione del pericolo rischiano di condurre allo stesso esito.