Il 3 maggio si è festeggiata la giornata mondiale della libertà di stampa, istituita dall’Assemblea Generale nel dicembre 1993. Sono ormai 25 anni che va avanti il meccanismo di celebrazione dei principi fondamentali legati ai diritti dei giornalisti, della volontà della comunità internazionale di istituire la libertà di stampa come assetto mondiale, di difendere i media dagli attacchi alla loro indipendenza e di commemorare i giornalisti che hanno perso le loro vite combattendo sul fronte del dovere.
La giornata, al Palazzo di Vetro, si è suddivisa in due parti. Alle 10am si è tenuta la sessione introduttiva di alto livello, a cui hanno partecipato Alison Smale, Sottosegretaria Generale per le Comunicazioni Globali ONU, António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, Miroslav Lajčák, Presidente della 72esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Jan Kickert, ambasciatore austriaco all’ONU, Melissa Kent, della CBC Radio-Canada e secondo Vice Presidente dell’UNCA (United Nations Correspondents Association) e Nicole Stremlau, Lead Researcher.
La seconda parte, è stata un panel, moderato da Ramu Damodaran, Chief del United Nations Academic Impact, e introdotto dall’ambasciatore francese alle Nazioni Unite, François Delattre. A parlare sono stati poi Marie Bourreau, giornalista di Le Monde e Radio France International all’ONU, Elisabet Cantenys, direttore esecutivo di ACOS Alliance, Steve Coll, Dean e professore alla scuola di giornalismo della Columbia, e Loubna Mrie, foto-reporter.

Durante il panel, “la libertà non può avere nessun tipo di limite”, ha detto François Delattre, “i media sono la base dell’attività UN”. Ha poi parlato brevemente di Shah Marai e del lutto mondiale che la sua morte ha comportato. “Ci sono storie incredibili anche dietro una videocamera”, ha detto l’ambasciatore rimarcando l’importanza del precisare le minacce e le sfide che i giornalisti devono affrontare sul posto. E non solo in Paesi pericolosi.
“Perché celebriamo l’assassinio dei giornalisti?”, ha chiesto Ramu Damodaran. “Perché la libertà di stampa continua ad essere impossibile da garantire ma rimane fondamentale”.
Marie Bourreau ha detto su Shah Marai che “era un fotografo della violenza, degli attacchi alla società”. Marai aveva seguito tutte le regole, eppure questo non è bastato perché si salvasse dall’attacco alla sua vita. Per questo, ha detto Bourreau, è necessario aumentare la consapevolezza dei giornalisti internazionali, la maggior parte dei quali si trova in una zona di conflitto e altamente pericolosa senza essere preparata, ma soprattutto quelli locali, perché più la situazione si fa pericolosa, più i media internazionali lasciano il Paese, più i cittadini che decidono di rimanere e raccontare al mondo cosa stia succedendo rimangono soli. “In Afghanistan”, ha detto la giornalista, “i talebani non attaccavano i giornalisti locali; però, l’attacco di lunedì da parte dello stato islamico ci fa capire che la situazione sia peggiorata, e fa sparire quel piccolo – piccolo, piccolo – spazio di democrazia che era rimasto”.

A questo proposito, Elisabet Cantenys ha presentato la ACOS Alliance, che, per i giornalisti sta facendo un grande lavoro. “Le sfide che ci troviamo davanti sono molto più grandi dei singoli individui… così, stiamo cercando di amplificare l’impatto del nostro lavoro colmando il gap che esiste tra media, freelance, non-profit”. L’alleanza in questione vuol dire perciò coordinazione e sicurezza per i giornalisti che lavorano sul campo. Soprattutto dal punto di vista delle assicurazioni, dei training, dei consigli, l’Alliance – ha spiegato Cantenys – sta cercando di promuovere la “cultura della sicurezza”, affinché i media, che sono quelli “più vulnerabili”, possano beneficiare almeno delle garanzie minime e indispensabili.
Un lavoro utile, indispensabile e fondamentale, certo. Ma dov’è finita la protezione da parte dei soggetti internazionali?
Steve Coll, Dean della scuola di giornalismo della Columbia, si è concentrato sugli Stati Uniti, e ha sottolineato le minacce molto serie che incontrano i media sotto la presidenza di Donald. “Il populismo dell’amministrazione Trump”, ha detto in tutta tranquillità nella Conference Room 1 del Palazzo di Vetro, attacca i giornalisti e sminuisce le notizie riportate; ma, molto più grave, riesce a smuovere un’ondata anti-media tra la popolazione. “I diritti di stampa sono inseparabili dagli altri diritti”, ha detto.
Il commovente intervento di Loubna Mrie si è incentrato sui fatti che l’hanno portata a New York in quanto giornalista. Nel 2011 ancora viveva in Siria. “Avevo 19 anni e ancora pensavo che il cambiamento sarebbe avvenuto senza un prezzo”, e siccome in quel momento ai media internazionali non era permesso l’accesso sul campo, “noi avevamo la responsabilità di riportare le cose”. Mrie, apprese da un suo amico giornalista le basi, aveva iniziato a viaggiare tra Turchia (dove poteva attingere da informazioni più complete) e Siria, dove tornava per fare il training ad altri ragazzi e ragazze. “La Siria è un posto davvero oscuro”, ha detto, “tutto quello che chiedo è l’accountability di giustizia contro il governo e i gruppi radicali”.

“Grazie a Mrie per avere impersonato in modo davvero eloquente ciò di cui stiamo parlando”, ha detto con il sorriso Ramu Damodaran. Ma la vera domanda è “cosa significa quel grazie?”
Robert Mahoney, direttore esecutivo del CPJ (Committee to Protect Journalist), è intervenuto riportando il panel alla realtà. Gli attacchi ai media avvengono per creare una “zona di silenzio”, ha detto. “Più di 1300 giornalisti sono stati uccisi nella ultima decade … e sono stati uccisi perché dissotterravano la corruzione politica e finanziaria. Cosa stiamo facendo noi rispetto a questo?”. E poi, continuando, ha impietrito per un momento Ramu Damodaran. Davanti alla platea, Mahoney, citando la cancellazione di una conferenza che faceva parte del calendario di eventi di questa giornata di celebrazione, e che parlava di fake news, ha detto: “vorrei chiamare tutti a combattere la politicizzazione dei media che si tenta di fare dentro il palazzo dell’ONU”.
Il suo intervento, praticamente ignorato dai panelist, è stato poi successivamente ripreso da una ragazza della platea. “Perché l’altro panel è stato cancellato?”, ha chiesto. “Non posso rispondere”, ha detto il moderatore.
Il collega di Mahoney, Joel Simon, il 2 maggio aveva scritto l’articolo: “L’assurdità del World Press Freedom Day: breve storia”. Simon scrive così: “Mentre è facile alzare gli occhi al cielo durante una festa indetta dall’ONU, senza un consenso condiviso dei valori e dell’importanza della libertà di stampa, questo diritto fondamentale scompare nel buio”.

Al minuto di silenzio chiesto da un giornalista in platea perché venissero commemorati i giornalisti morti quest’anno mentre facevano il loro lavoro – silenzio che è durato non più di 15 secondi – Ramu Damodaram ha risposto con un sorriso e un “grazie per la meravigliosa iniziativa, passiamo ad un altra domanda”, proprio come ha risposto a tutti gli altri interventi.
“Non può esistere un Paese libero senza stampa libera. La libertà di parola è un diritto protetto in America, ma in troppi altri Paesi, i governi limitano o bloccano interamente il discorso libero e il reporting indipendente. Nei regimi brutali dove le persone non sono libere, i giornalisti servono come occhi e orecchie per il resto del mondo e raccontano le storie al posto di chi è incapace di parlare per se stesso, e lo fanno rischiando personalmente. Oggi li onoriamo per la loro forza e la loro determinazione nel portare al mondo la verità”, ha scritto invece Nikki Haley, ambasciatrice statunitense, in un suo statement.
Ma Margaux Ewen, direttore nord-americano per Reporters Without Borders, ha implicitamente risposto all’ambasciatrice, dicendo che anche “sempre più leader democratici vedono i giornalisti come una minaccia, invece di guardarli come un aspetto fondamentale della democrazia”.
Il 17 febbraio, il presidente Trump twittava apertamente che la stampa è “nemica del popolo americano”. E, durante questa giornata così piena di significato – quantomeno a livello formale – Reporters Without Borders l’ha denunciato con il nuovo report che raccoglie gli attacchi contro i media che avvengono negli Stati Uniti, Paese in cui già durante l’era Obama erano presenti tensioni a riguardo, ma che ora sta diventando ancora più ostile.
Davanti all’inasprimento dell’ostilità verso i media, nei Paesi già ostili ma anche nei Paesi democratici, Antonio Guterres si era espresso nell’evento precedente attraverso un videomessaggio, con tutta la sua durezza: “quest’anno (o forse voleva dire ogni anno) domando a tutti i governi di far sì che la libertà di stampa sia rispettata”.
“Essere giornalisti è una passione; non è una carriera ma è il dovere di riportare quello che succede”, ha detto Loubna Mrie rivolgendosi ai giovani. Come si fa? “Se vedete delle ingiustizie, prendete il vostro smartphone e raccontatelo”, rimarcando la solitudine in cui vengono lasciati quelli che perseguono la verità. “I giornalisti non hanno idea dei loro diritti, e penso che ci sia un gap enorme su quello che avviene loro sul campo e quello che succede a questa conferenza”, ha concluso.
Aggiornamento del 4 Maggio, statement di UNCA (United Nations Corrispondent Association):
“UNCA è preoccupata per le segnalazioni rispetto al fatto che sarebbe stato chiesto ad un panelist di non concentrarsi su specifici Paesi che limitano la libertà di stampa durante un panel di discussione per il World Press Freedom Day. Il panel era stato organizzato dalla United Nations Alliance for Civilizations, un’iniziativa ONU. Dopo che il panelist, il News Literacy Project, ha rifiutato di rispettare la richiesta, l’evento è stato ‘postposto’. Anche un membro di UNCA doveva partecipare all’evento. Sollecitiamo il Segretario Generale, António Guterres, affinché accerti cosa sia successo. Le Nazioni Unite dovrebbero sempre lottare, come il Segretario Generale ha detto per il World Press Freedom Day, per il ‘nostro diritto alla verità'”.