A causa di una lunga malattia che negli ultimi tempi gli aveva fatto perdere del tutto la memoria, è scomparso ieri in Italia il nostro collega Franco Pantarelli, giornalista, corrispondente per molti anni e per varie testate italiane da Washington e New York. Nato a Roma il 26 novembre 1941, da bambino, durante la guerra, Franco aveva vissuto a Milano. Tornato a Roma con la famiglia, era cresciuto nel quartiere della Garbatella, che ha sempre ricordato con affetto. Prima di perdere la memoria stava infatti scrivendo un racconto sull’arrivo del tram al quartiere, intitolato, appunto, “Il Paletto”. In Italia, Franco aveva abitato, oltre a Roma e a Milano, molti anni a Firenze. All’estero, aveva vissuto in Svizzera, Belgio, Unione Sovietica, Stati Uniti e, nell’ultima parte della sua vita prima di ammalarsi, in Argentina.

Il primo suo lavoro giornalistico lo aveva svolto dalla Svizzera, dove Franco alternava la scrittura con il disegno architettonico e suonava la batteria. Per il suo lavoro di reporter, Pantarelli aveva viaggiato tanto. Parlava sempre di Cuba e dell’Africa, del deserto, del popolo saharawi. Era molto legato all’Uruguay, dove si era recato solo nel 2000, per ritrovare alcuni amici, tra cui Mario Lubetkin e Esteban Valenti, e per ascoltare gli Olimareños. Lì, aveva collaborato con la rivista “Marcha”. Voleva anche conoscere la terra di Jorge Amado e abbiamo fatto insieme un bellissimo viaggio a Salvador de Bahia per visitare la casa museo del grande scrittore brasiliano.
Franco era arrivato a Buenos Aires nel 2008, da dove aveva iniziato a scrivere la sua colonna “Il fuoriuscito” per l’inserto domenicale OGGI7 di America Oggi. Scrivere era la sua passione e il punto fermo della sua vita. Ha lavorato per l’Ansa, la Rai, l’IPS, Paese Sera, La Stampa, e tanti altri media. Tra questi Sur, un noto giornale della sinistra e del peronismo di sinistra argentino diretto da uno dei più importanti difensori dei Diritti Umani d’Argentina, l’avvocato Luis Eduardo Duhalde. Amava la musica e suonava la chitarra, che insieme alla macchina da scrivere prima e il portatile dopo hanno girato con lui da Mosca a Washington e New York, da Roma a Buenos Aires. “Dove vola l’avvoltoio” è stata la prima canzone che ho ascoltato da Franco nel lontano 1979, quando l’ho conosciuto a Roma e lui suonava per suo figlio Ivan e per i suoi piccoli amici Fer, Gon e Fede, i miei tre figli. L’ultima, “Mario”, quando a Buenos Aires faceva fatica a ricordare le parole.
La sua opera preferita era “La Traviata” e diceva di aspettarsi un finale diverso, con una Violetta guarita e felice. Ma poi aggiungeva: “Violetta non muore mai. Si rialza e saluta mentre il pubblico applaude”. Un po’ come lui per gli amici che riuscivano a capire il suo modo di essere romantico, disordinato, confusionario, sognatore. Da bambino era innamorato dell’isola che non c’è. “Ma i marinai dei battelli che ancora oggi solcano quel mare sanno riconoscere perfettamente il punto in cui una volta c’era Dalina e l’aggirano come se l’isola esistesse ancora”: finisce così “Dalina”, il suo breve romanzo pubblicato nel 1995 a New York.
Proprio come lui, un bambino maturo con le tasche piene di cioccolatini e voglia di giustizia e di pace.
Ci ha lasciato ieri sera.
Ciao, Franco. La tua utopica mongolfiera non smetterà mai di volare.
Dora Salas, Buenos Aires

Vidi per la prima volta Franco Pantarelli ad una conferenza stampa, metà anni Novanta, a New York. Non ricordo quale premier italiano o ministro degli Esteri fosse, ricordo però che anche senza conoscerlo ancora, quel giornalista spiccava su tanti altri, non solo perché fosse così alto o per quei suoi modi da gentleman. Franco lo avrei rivisto in tante altre conferenze stampa, e come era avvenuto la prima volta, di solito era quasi sempre lui a chiudere il giro delle domande al “pezzo grosso”. Fin nel tono, come nel contenuto, il suo intervento si distingueva da quello di molti altri colleghi per essere, come dire, meno “affabile”. Più giovane e con molta meno esperienza di lui, ne ero rimasto impressionato. Anche perché Franco scriveva per La Stampa di Torino, un giornale, insomma, da cui ti aspetteresti modi più consoni all’establishment. Invece, dopo le domande “soft” e prevedibili, in cui il ministro di turno replicava senza dire granché, ecco che Pantarelli se ne usciva, dopo aver fatto un brevissimo sunto su quello che non si era detto (col tono di chi pensa: “Ma ci avete fanno venire fin qui per dire quattro cose scontate?”), sparando poi la domanda tosta. A quel punto, il ministro di solito balbettava due frasi di circostanza e scappava via.
Così, quando Franco anni dopo venne a lavorare in redazione ad America Oggi (aveva perso la sua collaborazione con La Stampa, e magari si intuisce perché), gli fu data una scrivania accanto alla mia e così, oltre che colleghi, diventammo amici. I suoi erano i modi di chi ne aveva viste di tutti i colori, che non si meraviglia più e che aveva rielaborato, oltre allo scetticismo, strumento essenziale dell’essere giornalista, una predisposizione sensibile al bello della vita, soprattutto all’amore (amava tantissimo le donne e si sposò più volte), come alle arti. Così, quando si trattava di chiacchierare di politica o notizie, se non riguardava la sua Lazio, faceva uno sbuffo di noia. Lui aveva già capito tutto: non c’era nulla più da capire in realtà per lui, gli uomini (e le donne) che raggiungono il potere diventavano tutti uguali. Mentono e manipolano i fatti e quindi allontanano dalla verità. Mentre, quando si toccava argomenti più vicini alla vita delle persone comuni, ecco che gli si accendeva lo sguardo romantico. E così raccontava di quando cantava e scriveva canzoni in Svizzera, dei suoi viaggi, delle avventure, di quando si innamorava.
Franco aveva anche un grande senso della giustizia. Ricordo quando ad America Oggi ci abbassarono a tutti lo stipendio per via “della crisi”, anche se il giornale continuava a ricevere tanti soldi dall’Italia che dovevano servire soprattutto a pagare i giornalisti. Lui diventò il nostro “paladino” sindacale. Sapeva come trattare “i padroni”, anche se magari erano anche colleghi, e insomma con lui ci si sentiva tutti un po’ più sicuri: Pantarelli non si faceva prendere per fesso.

Quando Franco andò in pensione e lasciò New York, tornò a Roma, carico di nostalgia e belle speranze. Quando fu il momento di partire, iniziammo una rubrica. Allora facevo il magazine Oggi7 di America Oggi e Franco aveva iniziato con me una column, la chiamammo “Il rimpatriato“. Ma dopo pochi mesi, il suo sogno del ritorno in Italia si trasformò in incubo. Berlusconi era tornato al governo, e lui non riusciva a riconoscere più né la sua Roma che l’Italia. Sconfortato l’abbandonò per andare a vivere in Argentina. Voleva continuare a scrivere e insieme pensammo a far ritornare la rubrica con un nuovo nome. La chiamammo “Il Fuoriuscito“. Poi, quando fondai La Voce di New York, Franco allora continuò “Il Fuoriuscito” in queste pagine nel web fino a quando la sua malattia non progredì al punto da non permettergli più di scrivere. Le ultime puntate della sua rubrica le trovate qui.
Gli ho parlato l’ultima volta al telefono nel 2016, era tornato in Italia e la malattia gli aveva ormai quasi del tutto cancellato quello che di più prezioso può avere un uomo che aveva visto e vissuto tanto: la memoria. A me rimarrà invece per sempre la memoria della sua sensibile e generosa amicizia e di quell’immagine della prima volta che lo vidi fare una domanda coraggiosa al potente di turno, come fa un giornalista vero.
Stefano Vaccara, New York