Ogni potere si sostiene col consenso, coercitivo o democratico: il potere vuole durare e per ottenere lo scopo non va sempre per il sottile. Il potere totalitario non esita di fronte al terrore, quello democratico adotta mezzi più blandi e solo in casi rari ed estremi usa corruzione, minaccia, violenza.
In ambedue i sistemi, democratico e non, il consenso è garantito se si preservano tre fattori: l’ordine, la sicurezza, la maggioranza elettorale. Se la popolazione non è in sciopero e rispetta le leggi; se non attenta allo stato con mezzi di rivolta e/o terrorismo; se vota a maggioranza per il potere costituito, mostra che popolo e governanti, volenti o nolenti, sono in sintonia. La stabilità dello stato viene meno quando uno o più dei citati elementi mancano di conferma. Allora la crisi di consenso diviene generatrice del nuovo ordine.
Il regime democratico corrisponde alla crisi di consenso, modificando o sostituendo la maggioranza di governo. Le dittature sono meno resilienti: rispondono in genere accrescendo le dosi di violenza attraverso carcere, tortura, gulag, omicidi.
E però anche le dittature cercano di utilizzare la forza il meno possibile, se non per ragioni umanitarie per calcolo politico. “Non stuzzicare il cane che dorme” resta una delle buone e collaudate regole della politica. L’uso eccessivo ed esplicito della forza può generare reazioni e proteste, sino all’organizzazione del dissenso e alla sua azione. Non così l’espressione “dolce” e suadente del potere, capace di piegare senza rompere, di permeare e filtrare senza invadere e dilagare. Il che è anche più vero nei nostri tempi di comunicazione immediata e globale, dove l’eventuale dissenso finisce subito in piazza e trova mallevadori interni ed esterni.
Se le premesse sono corrette, può affermarsi che uno dei compiti più impegnativi del potere politico sia mantenere il consenso. Nei regimi dittatoriali come in quelli democratici, l’espressione del voto è divenuta la manifestazione essenziale del consenso, l’indice sul quale, al di là di interpretazioni e sondaggi di opinione, si deve calcolare quanto effettivamente il leader e/o il suo partito siano graditi, approvati, o almeno sopportati, dal popolo.
Risulta in pratica irrilevante, rispetto alla piena disponibilità del potere che il vincitore della competizione elettorale viene a ricevere, la discussione sulle radici del consenso, sulla legittimità o meno della fonte del potere, su eventuali brogli o atti di corruzione e manipolazione di votanti, a meno che detti fenomeni non siano immediatamente dimostrabili.
E’ il numero totalizzato dalle schede elettorali, fosse anche in parte manipolato, a contare e a risultare decisivo, perché è quel numero che attribuisce a taluni il potere e ad altri lo sottrae. Interessa a sociologi e politologi, a ricercatori e intervistatori, ai capi e adepti della fazione perdente, speculare su motivazioni e correttezza del voto, ma nulla cambia rispetto a chi detenga e non il potere. Il vincitore passa alla cassa con le fiche accumulate sul tavolo elettorale, e riscuote. Al più, dove i sistemi politici lo consentano (lo abbiamo visto con Nixon negli Stati Uniti, e più di recente in Brasile e Sud Corea), saranno opportune procedure costituzionali a consentire la rimozione del leader da un posto che, a quel punto, neppure il risultato del voto consente di mantenere.
Si dirà: ma il candidato esprime idee. Vuole voti, ma li vuole su un programma politico che presenta e incarna, sulla cui esecuzione si impegna. Quindi accetta solo il sostegno che collima con le sue idee. Accadeva un tempo, accade sempre meno. Forse che un baro è interessato a criticare il meccanismo che, non disponendo di abilità, ha scelto e preordinato al fine di accumulare vincite!? Dando per scontato che nessuno lo scopra, cambia forse niente rispetto alla sua vincita, il fatto che lui sia baro? Assolutamente nulla.
Fuor di metafora: nella contemporaneità il potere, costretto a fondare la legittimità sul voto, aspira ad ottenere il numero di voti necessari alla realizzazione dell’obiettivo. Ha meno interesse che nel passato alle idee e ai sentimenti che ogni voto, salvo quello di mero interesse, esprime. Ciò comporta che, qualunque meccanismo e argomento convinca e crei consenso, sarà benvenuto, in quanto portatore di voti.
E’ da questa constatazione che origina la gran mole di fesserie, e purtroppo menzogne, che fa sempre più da sfondo alle campagne elettorali. Quella che ha portato all’elezione di Donald Trump fornisce l’esempio più clamoroso a sostegno dell’affermazione. L’elettore medio, quello meno informato sui fatti della politica e della società, si affida al candidato leader il cui linguaggio risulti più in linea con le proprie aspettative, fondate spesso su disinformazione e pregiudizio.
Questi gli racconterà molte storielle, promettendo cose inverosimili che non gli darà mai. Ma il potenziale elettore ama quella narrazione, vuole essere blandito, accarezzato, vellicato. Vuole essere vendicato nei torti che altri, diversi dall’amabile e forte candidato che ha di fronte, gli hanno procurato. Vuole essere stimolato nei sentimenti e nella pancia più che nel cervello e nella ragione.
Se il candidato o il leader gli raccontasse, al contrario, che è il momento di fare sacrifici per salvare la casa comune malandata, che i suoi pregiudizi non hanno ragione di esistere perché sostanzialmente idioti e schizofrenici, gli girerebbe le spalle. Se gli dicesse che dovrà togliergli dei privilegi perché il bilancio pubblico non li consente più, lo considererebbe nemico personale e non lo voterebbe.
Quel tipo di elettore non ama essere veridicamente “in-formato”. E’ come il malato che non ama il medico che gli dice la verità. Quindi chiede alla politica di essere “de-formato” attraverso la falsa informazione.
Si dà il caso che, per costruire consenso, il potere debba utilizzare anche menzogna e disinformazione. E di questo, in genere, non ci scandalizza. Quando però la scala della menzogna e della disinformazione supera ogni immaginazione, quando queste non sono giustificabili con esigenze di sicurezza nazionale, quando sono prodotte esclusivamente per creare o consolidare il potere personale del leader, esse sono semplicemente inammissibili e politicamente, oltre che moralmente, riprovevoli.
E’ almeno da tutto ciò che occorre partire per qualche ragionamento sulle cosiddette fake news, qui chiamate bonariamente notizie fasulle.

Due articoli di Project Syndicate, contribuiscono a un minimo di chiarezza sul tema, pur presentando tesi che potranno sopportare più di una critica.
Peter Singer, ragionando nel numero del 6 gennaio su libertà di parola e notizie fasulle, si chiedeva quale effetto avesse avuto nell’elettorato il tweet sulla presunta pedofilia di Hillary Clinton, postato una settimana prima del voto di novembre. Ricordava che in un talk show tal Alex Jones aveva ripetutamente affermato che la candidata fosse coinvolta in un giro di violenza sui bambini e che John Podesta, presidente della sua campagna, partecipava a rituali satanici. Il video di Jones che, tra le altre delizie, faceva riferimento a “all the children Hillary Clinton has personally murdered and chopped up and raped” è andato su You Tube 4 giorni prima delle elezioni ed è stato visto più di 400mila volte, prima di essere rimosso.
Azioni di esagitati, con evidenza scatenati dalla falsa comunicazione, hanno mostrato che in molti hanno bevuto la storiella. Tra gli immaginabili effetti, è lecito supporre ci sia stato quello di non votare Clinton. Correttamente Singer si chiede se tutto ciò, formalmente in linea con il diritto costituzionale alla libertà di espressione, non sia nella realtà effettuale qualcosa che violi il diritto-dovere degli elettori ad operare al seggio “informed choices”.
Tanto più, osserva, quando diffamazione e diffusione di notizie fallaci avvengono a ridosso delle scadenze elettorali, con l’immediatezza di circolazione consentita dagli attuali media e social. Gli elettori che vanno ai seggi non hanno il tempo di approfondire e ascoltare la voce di chi viene diffamato, né il giudice eventualmente chiamato dalla querela della parte offesa può esprimersi. A rimetterci è certamente l’offeso, ma sono soprattutto la democrazia e la correttezza del risultato del voto.
Alexander Dardeli interviene l’8 marzo con “How Fake News Wins”. L’autore parte dalla constatazione che, in passato, si fosse ritenuto che il problema della disinformazione riguardasse solo i paesi sotto dittatura. Si scopre che i paesi di maggiore tradizione democratica soffrono la stessa sindrome, con l’attacco dell’informazione falsa o deformata. Ciò accadrebbe, con riferimento agli Stati Uniti, anche perché, secondo il sondaggio Gallup, solo il 32% degli americani ha un “grand deal” o “fair amount” di fiducia nei media tradizionali, il punto più basso di sempre nel rapporto tra mezzi d’informazione e lettori. Dardeli conclude che molti cittadini “are throwing out the good information with the bad”.
Spetta a chi scrive e chi educa, ma sopratutto a chi legge e ascolta, attrezzarsi con maggiori e più qualificati strumenti critici, al fine di scansare o cestinare l’informazione fasulla. Il buon senso in queste cose aiuta molto più di quanto si ritenga in genere, così come aiuta lo spirito di libertà e l’onestà intellettuale personali. Anche un pizzico di intelligenza e la minor dose possibile di stupidità e dabbenaggine, non guastano.
L’informazione, scrive Dardeli, è un po’ come il cibo che mangiamo: più conosciamo degli ingredienti, dei processi produttivi, dei danni procurati dall’eccesso di consumo, meglio mangiamo e gustiamo.
Non sarà comunque semplice e rapido ricostruire il rapporto tra chi produce informazione e chi la consuma: troppi guasti sono stati fatti, e troppi nuovi rischi appaiono all’orizzonte in tempi di “alternative facts” e sfrontate menzogne pubbliche. Peraltro, l’estremizzarsi delle posizioni politiche in molti paesi (negli Stati Uniti, ad esempio, il fenomeno Trump sta costringendo molti sinceri liberal a radicalizzarsi, e molti sinceri conservative a “trumpizzarsi”), sposta anche analisti e giornalisti vocati all’obiettività a militare in favore delle proprie tesi, rendendo sempre più “soggettivo” il loro lavoro, il che non è necessariamente un bene perché incrina una prerogativa del buon giornalismo: tenere distinti fatti e opinioni, fatti e commento ai fatti
E’ certo che senza libera informazione e fiducia tra chi la produce e chi la consuma, è impensabile che i sistemi democratici come li abbiamo conosciuti sino all’11 settembre, possano mai tornare ad esprimersi con la ricchezza loro appartenuta. Ed è bene che non siano in troppi a rassegnarsi alla possibilità che, nel mondo del XXI secolo, possano darsi impunemente “alternative democracies”.