Andrea Rocchelli e Andrey Mironov erano i testimoni di una guerra sempre più sporca. Freelance trentenne con all’attivo numerose collaborazioni a livello nazionale e internazionale, il primo. Giornalista, oppositore del Cremlino, internato nei gulag, “fixer” e punto di riferimento per chiunque volesse raccontare il conflitto in Ucraina, il secondo. Andrea e Andrey sapevano benissimo di stare in un posto difficile dove i combattimenti potevano spostarsi velocemente, senza rispettare nessuno, tanto meno i giornalisti. Il fronte di Andrievka è stato l’ultimo luogo che hanno visto, dopo un attacco a colpi di proiettili e almeno 40 granate.
Sembra che le forze ucraine siano responsabili della loro morte, ma come sempre accade in questi casi, le due fazioni si rimpallano la colpevolezza. Forse, se i sospetti fossero ricaduti sui separatisti filo-russi, tutto il mondo ne starebbe ancora parlando. Mentre in questi giorni l’imbarazzo (e il silenzio) è grande in Occidente perché chi ha ucciso i due giornalisti sarebbe il miglior amico di Europa e USA.
Al di là delle valutazioni politiche, quello che è importante è la storia di Andrea e Andrey. Non per farne un necrologio ovviamente. Neanche per scriverne un coccodrillo. Tutto il mondo ha visto le loro foto, letto i loro pezzi: ormai tutti sappiamo che erano dei colleghi valenti e valorosi. Ma la storia che oggi porta drammaticamente i loro nomi, in altri tempi ha avuto quelli di Almerigo Grilz, di Maria Grazia Cutuli, di Ilaria Alpi o ancora di Raffaele Ciriello. Nomi, visi, storie di colleghi che non cercano la bella morte, ma che cercano di raccontare quello che succede sul terreno, di trovare la notizia, di scoprire un intrigo, che sia in Africa o in Palestina come in Afghanistan.
Paradossalmente, andando verso il terzo millennio, la nostra professione viene sempre meno rispettata. Nei conflitti asimettrici e sempre più sporchi, nel mondo che corre e cambia, il rispetto diminuisce: i giornalisti sono merce di scambio alcune volte, mentre in tante, troppe situazioni sono solamente un fastidio da eliminare. In ogni modo.
A pochi giorni dalla morte di Andrea e Andrey, quasi nessuno ne scrive più. Siamo troppo abituati a correre, da una notizia all’altra, da un tweet a un post su facebook, che la loro morte è già nel passato. Peccato, un’altra occasione persa. Non solo per rendere onore e merito a due colleghi che sono stati uccisi in guerra. Un’occasione persa per raccontare cosa significa essere un freelance, la vita quotidiana in zone di crisi e di guerra, cercando di vendere pezzi che il più delle volte in pochi vogliono. Un’occasione persa per fare cultura in Italia nel mondo dei media: quanti direttori che hanno dedicato una pagina ad Andrea e Andrey, veramente danno spazio a freelance e alle notizie di esteri?
Quello che non è stato detto è che ogni freelance potrebbe essere il prossimo viso che racconta di un giornalista ucciso in Ucraina, come in Siria o in Repubblica Centrafricana. Ogni freelance conosce perfettamente i rischi che corre e rifugge la voglia di lamentarsi, piangersi addosso e auto incensarsi. Ma un po’ di rispetto, quello sì, ci vorrebbe. Ma non quando un collega muore. Quando invece porta a casa una bella foto, una intervista interessante o un’analisi composita e approfondita e il caporedattore di turno gli risponde: “Scusa, gli esteri sai non fanno share, non vendono, non bucano”.
Twitter: @TDellaLonga