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Con la vendita del Washington Post, si avvicina il modello media&potere italiano?

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Jeff Bezos e la sede del Washington Post

Jeff Bezos e la sede del Washington Post

Time: 4 mins read

Uno degli uomini più ricchi della terra, ha comprato uno dei giornali più importanti del mondo. Jeffrey P. Bezos, fondatore di Amazon.com, per 250 milioni di dollari è diventato il padrone del Washington Post. L’inventore del business on-line, si è regalato una delle due testate ammiraglie (l’altra è il New York Times) del Quarto Potere in America.  Per Bezos – Forbes valuta la sua fortuna in 25 miliardi di dollari – 250 milioni sono una bazzecola. Ma con quella “modesta” cifra, il fondatore della più grande azienda del commercio mondiale on line di libri, ha messo le mani sul giornale del Watergate, che con la sua inchiesta fece dimettere il Presidente Richard Nixon.

La domanda resta quindi in sospeso: perché Bezos ha comprato il Post? A cosa gli serve? E’ solo un giocattolo, un passatempo “intellettuale” per  vantarsi con gli amici dell’high-tech di Seattle, oppure diventa  uno “strumento fondamentale” per le strategie del suo colosso Amazon?

Bezos, nel messaggio ai giornalisti del Washington Post, ha cercato di calmare le preoccupazioni della redazione e, pensiamo, anche di tutti quei cittadini che hanno a cuore la funzione corretta della stampa in democrazia. Ha detto in sostanza che a comprare il WP è solo lui, non la sua azienda.

Uhmm, ci ricorda qualcosa. Anche per quel Giornale di Milano il proprietario non era formalmente Silvio Berlusconi o la sua azienda, ma un certo Paolo Berlusconi, fratello del boss…

La famiglia Graham, che per oltre mezzo secolo ha tenuto alta la bandiera dell’indipendenza e credibilità del Washington Post, a sorpresa ha scelto un tycoon per passare la mano. Avrebbe potuto cercare l’offerta di qualche altro gruppo editoriale di solide tradizioni nel campo del giornalismo USA? A quanto pare loro di Bezos si fidano (il NYT ieri svelava già passati affari in comune tra la famiglia Graham e Bezos). Vedremo come reagiranno tra qualche mese i giornalisti del Post, solo loro potranno verificare sul campo se effettivamente, per quanto riguarda l'indipendenza, la direzione editoriale avrà le stesse garanzie con la nuova proprietà.

Ma la notizia della vendita del Post ad un tycoon dell’industria libraria on line che ora potrebbe diventare un moderno “Citizen Kane”,  ci porta inevitabilmente al confronto con quello che disse, solo poche settimane fa, Sergio Marchionne a proposito delle mire della Fiat sul pacchetto di maggioranza delle azione della Rizzoli che controlla il  Corriere della Sera: Stiamo spendendo tanto perché il Corriere è una importante scelta strategica…. disse un Marchionne come al solito senza peli sulla lingua.  Bisognerà monitorare e capire se la vendita del Post a Bezos, potrebbe significare un avvicinamento del modello “americano” a quello “Italian Style” (sarebbe una vera e propria tragedia) o se, come ci auguriamo, le giustificazioni del fondatore di Amazon sul suo acquisto, non sono ipocrisia “politically correct”  ma sincero rispetto per funzione e ruolo della stampa – anche e soprattutto nell’era internet – in democrazia.

Non tanti giorni fa, sul New York Times, uscì un'opinione che descriveva la situazione della stampa in Turchia. L’articolo in sostanza, affermava che il giornalismo turco non avrebbe potuto aiutare il dibattito pubblico e di protesta che si stava sviluppando in quei giorni nelle piazze di Istanbul e Ankara, perché tutti i grandi giornali e le tv in Turchia erano di proprietà di interessi che non avevano nulla a che fare con l’editoria e l’informazione. Cioè i giornali turchi servivano a tanti tycoon o grandi aziende come stumenti di pressione per i loro affari nei confronti della politica e viceversa, ma sicuramente non erano stati acquistati da certi proprietari per essere i guardiani delegati dai cittadini a sorvegliare chi amministra la cosa pubblica. Andate a leggervelo quell’articolo di opinione sul New York Times, provate a sostituire ogni volta la parola "Turchia" o "turco", con "Italia" o "italiano". Vi accorgerete che i due sistemi mediatici combaciano perfettamente.

Per carità, qui non è sempre tutta colpa di Silvio. Anzi, proprio di Berlusconi, che ovviamente “violenta” e impedisce ogni giorno con la sua attività in politica la funzione corretta dei suoi giornali e telegiornali, almeno si potrebbe dire che le sue aziende hanno nei media il  “core business”. Certo più devote all’intrattenimento che all’informazione, ma dopotutto la sua azienda si chiamava Mediaset… No, non è solo colpa di Berlusconi se la situazione in  Italia da decenni è come in Turchia, ma di un sistema che ha visto chi fabbrica automobili, chi costruisce palazzi, chi vende petrolio, e chissà in quale altro business indaffarato, conquistare le proprietà dei mezzi di informazione per usarli come strumenti di pressione, clave da sbattere in testa a chi impediva certi affari o violini per fare serenate a chi li agevolava. Un sistema deleterio per una informazione indipendente e credibile, e che invece sarebbe necessaria per la salvaguardia di ogni sistema economico e politico in democrazia.

Noi de La VOCE di New York, che abbiamo appena fondato questo giornale italiano per godere della protezione del Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, guardiamo a certi ultimi movimenti nel “business dei media” con una certa apprensione. Perché nelle piantine colorate disegnate dalle organizzazioni che monitorizzano la libertà di informazione nel mondo, l’Italia, come la Turchia,  è tra le pochissime democrazie che ha i colori scuri di chi ha ancora gravi problemi. Perché il vero giornalismo, controllore del potere sia economico che politico, dovrebbe essere sempre indipendente da questo. L’acquisto da parte del magnate di Amazon di una testata simbolo  della libertà e indipendenza della stampa come il Washington Post, nonostante certe rassicurazioni, non può che preoccuparci.

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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