Oggi, 3 maggio, è la giornata mondiale della libertà di stampa e d’informazione. Oggi, quello che solo in alcuni Paesi viene o può ancora essere chiamato “Quarto potere” (o anche “Quinto” in riferimento alla televisione, e allora anche “Sesto” in riferimento al web) non sta affatto bene. Si è ammalato anche in quei luoghi, dove godeva di buona salute. Lo denuncia anche l’ultimo rapporto di Freedom House e di cui vi proponiamo su La VOCE di NY, un servizio. Così persino nella libera e democratica Europa, la libertà di informare è messa sotto pressione dalla grave crisi economica, che chiude giornali, lascia senza lavoro giornalisti e sta dando anche l’opportunità ai governi “male intenzionati”, di poter legiferare contro chi dovrebbe controllarli.
I cittadini, come in Grecia e temiamo presto anche in Italia, impauriti e storditi dalla crisi, non si curano o addirittura acconsentono a quello che equivale ad una privazione della loro libertà e un declino della democrazia.
Noi che siamo italiani ma giornalisti a New York, siamo dei privilegiati. Non abbiamo scuse se dovessimo far male il nostro lavoro. È solo colpa nostra. Della nostra “pancia piena”, della pigrizia che assale chiunque quando ti arriva una valanga di soldi pubblici “regalati”, e che invece di essere utilizzati per migliorare il tuo prodotto giornalistico, hanno l’effetto contrario, “calmante” di lasciarti in un sonno tranquillo.
Alla VOCE di New York, giornale senza padroni, questo non accadrà.
Dicevamo che qui a New York, grazie al “First Amendment” della Costituzione USA, chi vuole informare veramente i cittadini non può essere mai ostacolato, mai minacciato e nè fermato dal pubblicare. Non è così nella maggior parte del mondo. Purtroppo non è così nemmeno in Italia, dove dal più potente politico al più piccolo dei suoi portaborse, i giornalisti e i giornali subiscono per milioni di euro centinaia di querele per “diffamazione”. Questo avviene quando ciò che è stato scritto, risulta già essere vero all’evidenza dei fatti raccontati. Ma intanto il potente di turno ti querela e tu, devi trovare soldi e avvocati, servendoti di una giustizia come quella italiana, in letargo. Ecco quindi che ogni minaccia di andare in tribunale “quieta” il quarto potere che non si è riusciti a comprare, mettendolo a cuccia.
Invece negli Stati Uniti, soprattutto dopo una famosa sentenza della Corte Suprema del 1964, New York Times-Sullivan, il “public officer” (quindi non solo un politico eletto, ma anche un pubblico ufficiale) non può con quella facilità portare in tribunale un giornalista. E tenetevi forte, cari lettori che raggiungete La VOCE dall’Italia: nemmeno se il giornalista ha torto, nemmeno se ci sono gravi errori nell’articolo, il politico può querelare il giornalista o la testata per cui scrive. L’unica condizione-possibilità che la Corte Suprema lasciò aperta, era un caso in cui “la malizia” era stata provata . Cioé chi si sente diffamato da un articolo deve provare con certezza che il giornalista prima di scriverlo e il giornale nel pubblicarlo, hanno intenzionalmente confezionato una notizia o informazione pur sapendo anticipatamente, che é falsa o sbagliata. Molto difficile, quasi impossibile da dimostrare.
Questo perché la Corte Suprema tra i due mali ha scelto quello minore: meglio una società con dei giornalisti che possono anche sbagliare – se non lo fanno intenzionalmente – che una società dove vengono minacciati continuamente mentre stanno compiendo il loro dovere di controllo sul potere. Una stampa che, grazie al Primo Emendamento rafforzato dalla Corte Suprema, che aveva a cuore il valore supremo affidato al quarto potere indispensabile alla salute democratica, ha proprio in America anche il diritto-privilegio di poter sbagliare quando si occupa di investigare una figura pubblica. Come spiegarono i giudici supremi la decisione nel celebre caso del 1964 infatti, anche alcune notizie rivelatesi poi false “must be protected if the freedoms of expression are to have the ‘breathing space that they ‘need… to survive:. Già, anche le notizie sbagliate devono essere protette, se alla libertà di espressione deve essere garantito quello “spazio per respirare” di cui “ha bisogno… per sopravvivere”.
Il giudice supremo Hugo Black scrisse: “Questa Nazione può vivere in pace senza quelle querele che si basano sulla discussione pubblica che riguardano affari pubblici o pubblici ufficiali. Ma ho il dubbio che un paese possa vivere nella libertà quando la sua gente può essere fatta soffrire fisicamente o finanziariamente per aver criticato il governo, le sue azioni, o i suoi ufficiali”.
Questa è la vera libertà di stampa e la libertà di poter diffondere l’informazione.
Attenzione, questi principi di libertà assoluta di espressione e divulgazione delle proprie idee attraverso qualunque media non sono solo americani, e non restano quindi chiusi dentro i confini di questo Paese. Sono principi internazionali, riconosciuti molto tempo prima di quella sentenza della Corte Suprema USA. Li troviamo infatti incastonati dentro la Dichiarazione Universale dei diritti umani firmata dai Paesi che avevano appena fatto nascere le Nazioni Unite nel 1948. Certo, l’ispiratrice di quell’articolo 19 (che vi invitiamo a rileggere sotto) era una super donna americana, Eleanor Roosevelt. Grazie a lei, la Dichiarazione Universale firmata dai Paesi fondatori dell’Onu, concepita alla fine della Seconda Guerra mondiale, diventa oggi, nell’era di Internet, ancora di più un punto di riferimento per tutto il mondo.
È bene che se ne renda conto e ne tenga conto il Parlamento anche in Italia.
Articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani: Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.