Non sono ancora entrati in vigore – e forse non lo faranno prima di marzo. Eppure i dazi promessi da Donald Trump sulle importazioni dei quattro principali partner commerciali degli Stati Uniti – vale a dire Canada, Messico, Cina ed Unione europea – hanno già sconquassato gli equilibri internazionali.
L’inquilino della Casa Bianca ha definito l’introduzione delle tariffe, che vanno dal 10% contro Pechino al 25% sui beni provenienti da Città del Messico e Ottawa (anche se l’import di petrolio canadese verrebbe eccezionalmente tassato al 10%) come una misura necessaria per difendere Washington dall’ondata di immigrazione clandestina e dal traffico di droga, in particolare il fentanyl.
Questioni sulle quali, a detta del repubblicano, “i Paesi coinvolti non stanno facendo abbastanza”, persino additando il Governo messicano presieduto da Claudia Sheinbaum di avere “un’alleanza intollerabile” con i narcos.
Ma c’è anche la ferma volontà di impedire alle altre nazioni di “trattare male” gli Stati Uniti facendo registrare surplus commerciali da capogiro – ovverosia esportando nella prima economia globale molti più beni di quelli importati.
Lo scorso anno, Cina, Messico e Canada hanno rappresentato più del 40% delle importazioni complessive negli Stati Uniti, per un volume complessivo di affari da circa 1.200 miliardi di dollari (quasi il 5% del PIL statunitense). Il Canada è uno dei principali fornitori USA di petrolio greggio, mentre il Messico esporta negli Stati Uniti grandi quantità di frutta e verdura fresca ed è anche il primo produttore di componenti per auto. La Cina, invece, è fondamentale nella produzione di semiconduttori utilizzati per produrre smartphone e computer.
Una volta entrate in vigore, le misure colpirebbero principalmente i settori industriali e tecnologici, ma l’effetto più diretto potrebbe affliggere i consumatori USA, che rischiano di vedere aumentati i costi su una vasta gamma di beni di consumo. Secondo la Tax Foundation, un think tank bipartisan, l’introduzione di dazi del 25% su Messico e Canada e del 10% sulla Cina si tradurrebbe infatti in un incremento della pressione fiscale pari a 1.200 miliardi di dollari. A conti fatti, quasi 4.000 dollari in più per ciascun cittadino statunitense.
A ciò vanno però aggiunte le ripercussioni delle pressoché certe contromisure che verranno adottate dai Paesi bersagliati. Il Canada, ad esempio, si è detto pronto ad imporre tariffe simili su una serie di prodotti americani, colpendo in particolare settori come quello automobilistico e agroalimentare.
“La nostra risposta sarà di ampia portata e comprenderà articoli di uso quotidiano come la birra, il vino e il bourbon americani. Frutta e succhi di frutta, compreso il succo d’arancia, oltre a verdure, profumi, abbigliamento e scarpe. Includerà i principali prodotti di consumo come gli elettrodomestici, i mobili e le attrezzature sportive, e materiali come il legname e la plastica, oltre a molto altro ancora”, ha annunciato il premier Justin Trudeau. L’Ontario, provincia più popolosa del Paese, ha intanto già deciso di annullare un accordo da 68 milioni di dollari con Starlink, il servizio di Internet satellitare gestito da Elon Musk.
Anche il Messico aveva minacciato contromisure, con un focus specifico sui beni di consumo di massa e sui prodotti energetici. Nella tarda mattinata di lunedì è arrivata invece un piccolo dietrofront: i dazi non entreranno in vigore da subito ma (forse) tra un mese.
“Abbiamo avuto una conversazione proficua con il presidente Trump, con grande rispetto per le nostre relazioni, la sovranità e abbiamo raggiunto una serie di accordi“, ha dichiarato la presidente messicana Claudia Sheinbaum su X, annunciando che verranno schierati 10.000 membri della Guardia Nazionale al confine con gli USA “per fermare il traffico di droga dal Messico agli Stati Uniti, in particolare il fentanyl”.
A stretto giro è arrivata la conferma che anche con il Canada è stato raggiunto un accordo in extremis per sospendere (o quantomeno posticipare) l’inizio della guerra commerciale.
Più defilata la reazione della Cina, che ha cercato di minimizzare l’impatto delle tariffe pur minacciando di agire in maniera speculare oltreché di presentare ricorso all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Pechino avrebbe proposto a Trump il ripristino dell’accordo commerciale “Fase 1” firmato nel 2020 per stemperare le tensioni. L’accordo prevedeva che i cinesi si impegnassero a importare 200 miliardi di dollari in più di export USA nel giro di un biennio – anche se la richiesta non fu mai ottemperata a causa dello scoppio della pandemia di COVID-19.
Secondo il Wall Street Journal (che in un discusso editoriale ha definito quella di Trump come “la più stupida guerra commerciale della storia“), il Dragone si sarebbe anche impegnato a non svalutare lo yuan, investire di più negli Stati Uniti e impegnarsi a ridurre le esportazioni di precursori del fentanyl, l’oppioide sintetico responsabile di circa 100.000 morti per overdose negli USA, tipicamente prodotto dai narcotrafficanti latinoamericani con materiale chimico-farmaceutico importato da aziende cinesi.
Nella linea di fuoco è finita anche l’Unione Europea. Domenica Trump ha ribadito che “senz’altro” verranno adottate misure contro i Ventisette (che “si approfittano” degli USA poiché “non importano quasi nulla mentre noi acquistiamo tutto da loro”), pur non precisando entità e tempistiche. Secondo quanto scrive il Telegraph, la Casa Bianca starebbe pensando a una tariffa del 10% come con la Cina.
La questione è giocoforza diventata l’argomento principale del summit informale di lunedì a Bruxelles dei leader dei Paesi membri. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente francese Emmanuel Macron (entrambi peraltro vicini alla scadenza di mandato) hanno fatto appello all’unità continentale sostenendo che la risposta al neo-protezionismo USA debba essere necessariamente condivisa. Berlino ha anche insistito sulla necessità di evitare un’escalation che potrebbe colpire le economie più vulnerabili dell’Unione Europea, specialmente quelle dei Paesi orientali e mediterranei. L’Eliseo ha chiarito che la difesa degli interessi europei non possa basarsi su una guerra di dazi, ma piuttosto su un nuovo modello di cooperazione economica che vada oltre i singoli interessi nazionali.
Secondo il Financial Times, l’Unione potrebbe colpire diverse importazioni statunitensi con dazi del 50 per cento o più se Trump procederà con i suoi piani.
Nonostante i Paesi UE esportino oltreoceano molti più beni di quanti ne importino (+155,8 miliardi di euro nel 2023, dati Eurostat), l’interscambio tra i due blocchi è bilanciato parzialmente dai circa 104 miliardi di euro di surplus statunitense nel settore dei servizi.
Discorso a parte per l’alleato “speciale” di Washington, ossia il Regno Unito – che è anche uno dei pochi Paesi europei ad avere un saldo commerciale negativo con gli USA. Domenica Trump ha specificato che anche Londra “è fuori dalle righe” ma ha aggiunto che “la cosa si può risolvere”.
Un portavoce del primo ministro laburista Keir Starmer ha definito le relazioni commerciali del Regno Unito con gli Stati Uniti “giuste ed equilibrate” e Washington “un alleato indispensabile”. Ma forse ancora più indispensabile per Londra è l’UE, che complessivamente assorbe il 41,4% dell’export britannico e rappresenta la fonte di oltre la metà delle sue importazioni (51,5%) – contro gli equivalenti 21,7% e 13,2% relativi all’interscambio con gli USA. Ragion per cui, in caso di guerra dei dazi tra le due sponde dell’Atlantico, Londra cercherà di non essere costretta a una delicatissima scelta di campo.