Dalla grande crisi finanziaria del 2008 al momento in cui tutti i telegiornali del mondo hanno parlato per la prima volta di coronavirus, alcuni rischi tipici dei mercati finanziari sembravano essersi notevolmente ridimensionati. La globalizzazione marciava senza ostacoli e l’atteggiamento degli operatori nei confronti dei rischi di mercato si era molto attenuato, quasi anestetizzato dalle favorevoli condizioni macroeconomiche.
Poi, quando la pandemia ha chiuso a chiave per mesi le porte di locali, imprese e negozi e spento i motori di aerei, treni e altri mezzi di trasporto, nella testa degli investitori è tornata l’incertezza. In un attimo, gli operatori hanno preso di nuovo coscienza dell’esistenza di alcuni rischi tipici del mercato finanziario, che informano da sempre anche il lavoro delle banche centrali; in un contesto che si caratterizza per l’elevata incertezza, aumentano le sfide per le politiche monetarie e il mantenimento della stabilità finanziaria.
Appena terminata l’emergenza Covid è iniziata l’invasione russa in Ucraina. Poi, quando il conflitto tra Mosca e Kiev sembrava sul punto di affievolirsi, l’attacco di Hamas a Israele ha riacceso le sirene della guerra. Il contesto geopolitico instabile ha messo in allarme gli specialisti, attenti agli equilibri dello scacchiere internazionale e alle conseguenze che ogni smottamento, per quanto piccolo, è in grado di provocare sui mercati.
“La percezione del rischio sta tornando molto forte – spiegano analisti finanziari di New York – lo riscontriamo anche dalla crescita dei tassi d’interesse, in particolare sulla scadenze più lunghe. Questo non riflette solo una politica monetaria più a lungo restrittiva, ma un cambiamento radicale della propensione verso il rischio: oggi è più problematico convincere i potenziali investitori a investire i propri soldi in attività finanziarie la cui scadenza è lontana nel tempo.

L’inflazione, infatti, è come un incendio che, una volta estesosi a una categoria di beni (ad es. durevoli, come nella fase più acuta della pandemia), si allarga rapidamente anche agli altri beni, (ad es. beni di consumo e servizi), finendo per coinvolgere anche le retribuzioni. Proprio la persistenza nel tempo dell’incremento dell’inflazione pone una questione sempre più dibattuta anche a livello accademico: siamo forse entrati in un “new normal” in cui il tasso d’interesse naturale d’equilibrio dell’economia è più elevato? Quali sono le forze strutturali che possono riportare i tassi d’interesse sui livelli contenuti con cui abbiamo a lungo convissuto nel periodo post-GFC”?
Al momento, dopo la fine della grande moderazione e il venir meno degli impulsi deflattivi provenienti dalla Cina, che per anni ha contribuito a mantenere stabili i prezzi dei beni a livello globale grazie a costi di produzione estremamente ridotti, Stati Uniti ed Europa fronteggiano un contesto simile (un mercato del lavoro estremamente teso e un costante rialzo dei tassi di policy), ma con alcune differenza da tenere in considerazione.
Washington, innanzitutto, ha affrontato il periodo post pandemia con un’azione di finanza pubblica estremamente espansiva, scelta che ha contribuito a rendere l’inflazione maggiormente persistente. L’Europa, priva di una politica di bilancio comune, non solo non ha potuto affiancare alla politica monetaria anche una politica fiscale espansiva; ha inoltre dovuto affrontare il problema del prezzo dell’energia che ha colpito le diverse regioni dell’area con forza dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina.
Mentre gli scenari geopolitici si stavano rapidamente deteriorando, grandi compratori sul mercato dei treasury, su tutti Cina e Giappone, negli ultimi mesi hanno diversificato gli investimenti in valuta estera riducendo le proprie attività in dollari; si e’ cosi assottigliata la platea degli investitori nei titoli del debito pubblico statunitense, mercato di riferimento a livello globale per la formazione dei prezzi di un ampio ventaglio di titoli.

“il nuovo contesto operativo – continuano gli analisti – pone un problema immediato. La sostenibilità di un elevato debito, pubblico o privato, diventa più difficile in un mondo in cui i tassi d’interesse sono più alti. Dal punto di vista delle finanze pubbliche una tendenza simile attiverà plausibilmente un processo di razionalizzazione della finanza pubblica “.
Questo si tradurra in un aumento delle tasse? Non necessariamente. Sono sempre gli analisti a spiegare che, ai fini della razionalizzazione delle finanze pubbliche, gli impatti sull’economia di interventi di riduzione e rimodulazione delle spese si sono spesso rivelati preferibili rispetto all’aumento delle entrate. Per condurre queste valutazioni si servono di modelli matematici e statistici, che riescono a simulare l’impatto delle variabili sul sistema economico.
“New York rappresenta un punto di vista privilegiato e una lente di ingrandimento su questi fenomeni – concludono gli analisti – tutti coloro che si occupano di aspetti finanziari sanno che dovranno fare i conti con le prospettive di lungo periodo dell’economia. Se i processi di frammentazione delle economie a livello globale dovessero intensificarsi e le tendenze di rialzo dei prezzi e dei tassi d’interesse persistere, in presenza di elevato debito la gestione della finanza pubblica dovrebbe privilegiare tempestivi e vigorosi interventi di razionalizzazione delle spese”.