In principio fu il crac della Silicon Valley Bank. Ma quello che sta avvenendo in queste ore ha tutte le caratteristiche di un profondo riassetto del sistema finanziario globale.
L’evento spartiacque è arrivato domenica, con l’acquisto da parte di UBS del travagliato Credit Suisse per la “modica” cifra di 3,2 miliardi di dollari. A fare da garante sarà la Banca nazionale elvetica, che ha contestualmente accettato di prestare fino a 100 miliardi di franchi a UBS per sostenere la transazione – la quale dovrebbe arrivare in porto entro fine anno.
Potrebbe – anzi dovrebbe – concludersi così la crisi più pericolosa dell’ultimo decennio, che ha fatto materializzare quello che fino a due settimane fa nemmeno il più creativo degli analisti finanziari avrebbe forse immaginato. I due colossi della finanza svizzera che diventano tutt’uno. E per soli 3,2 miliardi di dollari – meno della metà dei 8,5 miliardi di dollari del valore stimato di Credit Suisse alla chiusura dei mercati venerdì.
Ma le agevolazioni non sono finite qui. Finma, l’autorità di vigilanza finanziaria di Berna, ha infatti straordinariamente azzerato 17 miliardi di dollari di obbligazioni del Credit Suisse a più alto rischio – oltre al non insignificante dettaglio di non aver sottoposto la questione al voto degli azionisti, come altrimenti succede in ogni acquisizione di una società quotata in borsa.
L’accordo tra UBS e Credit Suisse prevede che gli azionisti di quest’ultimo ottengano 1 azione UBS per ogni 22,48 azioni Credit Suisse. Condizioni che non saranno ideali ma pur sempre meglio di quelle imposte agli obbligazionisti dell’ex banca numero 2 del Paese europeo.
La fusione ha provocato qualche malumore tra azionisti e obbligazionisti ma ha decisamente ravvivato il mercato – con le azioni di UBS che sono salite del 2%, recuperando un calo del 16% degli scorsi giorni.

Il valzer delle banche riguarda però anche gli Stati Uniti, dove il Governo è alla ricerca di un istituto che rilevi le ormai defunte attività della Silicon Valley Bank. Intanto nelle scorse ore a rilevare 38,4 miliardi di dollari di attività della seconda banca fallita – la Signature Bank – ci ha pensato la New York Community Bank, che per l’operazione sborserà 2,7 miliardi di dollari.
L’accordo è stato reso pubblico domenica dalla Federal Deposit Insurance Corp. Secondo la FDIC, i restanti 60 miliardi di dollari di prestiti detenuti dalla Signature Bank rimarranno in amministrazione controllata fino a quando non saranno smaltiti.
La New York Community Bank è una delle cinquanta principali istituzioni finanziarie statunitensi, con assets complessivi per 62,9 miliardi di dollari e una capitalizzazione vicina ai 10 miliardi. La maggior parte dei prestiti erogati dalla banca sono di tipo plurifamiliare o commerciale, molti dei quali concentrati nel mercato immobiliare di New York.
La Signature Bank, con sede a Manhattan, era stata invece chiusa la scorsa settimana a causa di una “eccezione di rischio sistemico simile”, diventando il terzo più grande fallimento bancario nella storia degli Stati Uniti – laddove al secondo posto c’è proprio il crac della Silicon Valley Bank (al primo c’è il collasso di Lehman Brothers del 2008).
Nelle prossime ore, quindi, le 40 filiali della Signature Bank passeranno sotto l’insegna della Flagstar Bank – una filiale della New York Community Bank. Ma il valzer potrebbe andare avanti ancora a lungo.
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