Pechino inasprirà i requisiti di quotazione delle start-up cinesi all’estero, in una mossa che rischia di accelerare la fuga delle società del Dragone da Wall Street in favore di piazze “domestiche” quali Hong Kong e Shanghai. Il pacchetto di proposte è stato annunciato venerdì dalla Commissione di regolamentazione della Repubblica Popolare, che ha sottolineato come esse siano funzionali a una migliore “protezione dell’interesse nazionale”.
Come spiega il Financial Times, qualsiasi società cinese che intenda quotarsi in una Borsa valori estera dovrà prima passare per il placet della Commissione, la quale avrà circa 20 giorni per valutare il progetto in consultazione con diverse agenzie ministeriali. Il loro compito sarà quello di verificare che siano state rispettate tutte le normative e i regolamenti relativi alla sicurezza nazionale. Solo nel caso in cui i controlli (che hanno un’ampia componente discrezionale) diano esito positivo, alla società sarà consentito procedere con il lancio dell’offerta pubblica iniziale (IPO) all’estero. La Commissione ha aggiunto che, ai fini della concessione del via libera, alle società potrebbe venire richiesto di cedere alcuni assets ritenuti sensibili.
Per il momento le misure non hanno ancora valore ufficiale, e la Commissione ha fatto sapere che gli operatori commerciali hanno tempo fino agli ultimi giorni di gennaio per inviare suggerimenti.
Non sono previste regole speciali per le cosiddette VIE (variable interest entities), forme societarie comunemente impiegate dalle società tecnologiche cinesi come Alibaba e JD-com nelle loro operazioni extra-confine. Le VIE consistono nella creazione, da parte di un soggetto cinese, di una holding estera le cui quote vengono sottoscritte da investitori internazionali, il che permette di far affluire denaro e soci esteri e aggirare così i rigidi paletti fissati dalla legislazione cinese. Un portavoce della Commissione ha precisato che le VIE saranno sottoposte ai medesimi requisiti previsti per le altre società.

La mossa cinese arriva a poco meno di un mese da un’equivalente stretta da parte della SEC. L’ente federale statunitense ha infatti approvato una norma che consentirà di delistare qualsiasi società estera quotata alle Borse di New York che si rifiuti di esibire i libri contabili alla commissione, volendo censurare un modus operandi comune soprattutto tra i giganti commerciali cinesi. Inoltre, gli operatori esteri dovranno fornire alla SEC adeguate garanzie di non essere soggetti al controllo di Governi stranieri.
Nel botta e risposta tra Washington e Pechino, a pagarne le conseguenze finanziarie è stata soprattutto New York: nel solo 2021 Wall Street ha perso circa 600 miliardi in valore. Secondo la U.S.-China Economic and Security Review Commission, rispetto allo scorso maggio la capitalizzazione di mercato complessiva delle società cinesi quotate negli Stati Uniti era infatti di circa 2.100 miliardi di dollari. Nella seconda metà dell’anno, quel valore è sceso a 1.500 miliardi, ossia ben 600 miliardi in meno. E le recenti mosse delle commissioni di regolazione dei due Paesi rischiano di provocare un vero e proprio esodo cinese da New York.
Un presagio sul futuro sembra arrivare dalla parabola di DiDi, la start-up ritenuta l’equivalente asiatico di Uber. A giugno la società pechinese lanciò la propria IPO sulla Borsa di New York, la più grande dell’anno grazie a una capitalizzazione di 80 miliardi. Tuttavia, la quotazione non incontrò i favori di Pechino, che temeva che la quotazione dell’azienda avrebbe messo a repentaglio la sicurezza nazionale, a causa del gran numero di dati personali sui cittadini cinesi conservati nei suoi database. Così, dopo un crollo che ha portato la capitalizzazione di DiDi a un quarto del valore originario (attualmente è di 29 miliardi), il management cinese ha deciso di procedere “immediatamente” con il de-listing dal NYSE per migrare a Hong Kong.
La finanza statunitense spera si tratti di un caso isolato, ma la prospettiva di una “grande fuga” cinese da New York sembra farsi sempre più concreta, con il delisting a trainare il processo di decoupling tra i due Paesi.