Inutile dirlo, la pandemia che ci ha travolti e sconvolti, è arrivata come un fulmine a ciel sereno su una società abituata a ritmi frenetici e con inclinazioni egoistiche. L’Italia, nei primi mesi del 2020, cercava di uscire da una fase complessa dal punto di vista economico e sociale e il Covid 19 ha amplificato, per non dire aggravato, problematiche già presenti.
Il ricercatore Enzo Risso ha pubblicato sul Domani un’indagine Cawi, realizzata tra il 15 e il 20 aprile 2021, su un campione di 800 italiani segmentati per età, sesso e zona di residenza. Secondo la ricerca, dopo 14 mesi di pandemia, il 61% degli italiani (a gennaio 2021 avevamo una percentuale del 57%) ha più paura della crisi economica che del Covid-19 (a gennaio i numeri si attestavano sul 43% e adesso sul 39%).
Emerge la fragilità economica di una nazione, dove il 57% degli italiani denuncia una diminuzione potenziale del reddito familiare per il 2021. Di questi, il 34% si aspetta una riduzione tra il 20 e il 50%. Il 23% vede il profilarsi di un calo nei limiti del 20 per cento, invece per il 9% il pericolo è di azzeramento, per la perdita del lavoro, dell’attività o del lavoretto precario. A prospettare un aumento del reddito sono solo il 5% delle persone, mentre un altro 29% considera solida la propria situazione economica.

Nell’articolo Risso evidenzia anche le conseguenze sulla società, generate dalla pandemia. Ha sottolineato le differenze di classe, di genere, di luogo di residenza, di tipologia di abitazione, di opportunità lavorative, di competenze digitali e di saperi.
Io mi sono occupato dei processi comunicativi durante tutti questi mesi e dalle mie ricerche sono emersi dati che corrispondono alla visione di Risso. Tante, direi troppe, le diseguaglianze economiche che hanno viaggiato, e viaggiano ancora, accanto ai disagi psichici e sociali delle fasce più deboli e fragili.
Nella prima fase ci hanno spiegato che non dovevamo preoccuparci, che non sarebbe successo nulla, che tutto era sotto controllo, perché in fondo avevamo a che fare con una semplice influenza o quasi. Poi abbiamo registrato un cambio di rotta. È apparso chiaro che il mondo stava vivendo qualcosa di molto più serio e che gli scienziati non avevano soluzioni per un’epidemia completamente diversa.
Il confronto tra gli stessi scienziati è stato altalenante. Infatti, sono esplosi confronti a distanza che sono sembrati il riflesso non di una diversa valutazione della pandemia, ma di veri e propri scontri all’interno del mondo scientifico, nell’opinione pubblica, generando una pericolosa situazione di infodemia, cioè la facilità a credere in qualunque cosa. Dall’infodemia si è passati alla psicodemia e le persone hanno iniziato ad avere paura, attacchi di panico e difficoltà a dormire.

Mi sono interrogato su come ci siamo ritrovati ad un bivio: morire di fame o morire di Covid 19. Si è discusso moltissimo sull’applicare o meno i provvedimenti restrittivi per cercare di intaccare l’economia già provata e sofferente. Allora cosa fare non applicare misure di sicurezza e protezione sociale, comprese chiusure mirate, per non distruggere quei settori produttivi che stentano a rialzarsi, oppure chiedere agli italiani altre privazioni per proteggerli dal virus ed evitare altri morti?
Abbiamo assistito, e stiamo assistendo, a tante proteste di piazza, organizzate da quelle categorie di lavoratori che più hanno pagato il prezzo di questa crisi. Su questa scia di tensione i negazionisti del Covid hanno trovato terreno fertile per innescare, anche via social, ulteriori dubbi e ulteriore disinformazione. La disinformazione ha favorito l’uso strumentale e manipolatorio delle informazioni per definire una specifica narrazione e visione del mondo, generando le fake news che, immesse nel vortice della nuova comunicazione, hanno un peso, una capacità di produrre danni enormemente più grande che in qualunque altro momento storico. Ovviamente, tutto questo ha destabilizzato la popolazione, rendendola sempre più vulnerabile e debole.
Lo sconforto della gente intervistata nelle piazze è talmente disarmante che davvero non sappiamo più cosa sia meglio per la nostra vita.
L’atteggiamento delle persone è cambiato rispetto ai primi mesi della pandemia e questo per molte motivazioni. L’ottimismo e quel “ce la faremo” risuona quasi come un ricordo lontano, poiché adesso ha lasciato spazio alla rabbia, alla delusione e al disinganno.

Il sociologo Bauman ha rintracciato le linee fondamentali del decadimento delle strutture della società tra cui proprio le istituzioni politiche, che pongono innanzi i propri interessi piuttosto che quelli dei cittadini. Come se non bastasse l’identità nazionale e partitica, che si annulla a vantaggio di logiche di mercato. Io mi trovo perfettamente d’accordo in quanto la perdita di credibilità nelle istituzioni, conduce gli uomini ad essere totalmente disillusi e questo genera un malcontento non indifferente che può sfociare in forme di violenza anche piuttosto gravi.
Molte le aspettative che sono state disattese dal punto di vista economico e quando mi chiedono se si poteva fare di più io rispondo di sì, perché si può sempre fare qualcosa di più per chi non può permettersi nemmeno di fare la spesa o non può pagare le tasse.
Ci vogliono misure economiche mirate alle piccole attività e alle piccole imprese, bisogna pensare anche a chi il suo negozio lo ha dovuto chiudere e si ritrova a non avere più nulla per vivere. Serve un piano economico che sia strutturale e mirato, altrimenti altre imprese e altri lavoratori si ritroveranno disoccupati e gli aiuti devono essere disponibili nell’immediato e non a data da destinarsi.
Io direi che nel 2021 ci sono le condizioni per non morire né di fame né di Covid, mi rifiuto di credere che non sia così. Allora chi può faccia, perché adesso più che mai è necessario salvaguardare la salute e la dignità dell’uomo. L’una non esclude l’altra, anzi.