Per l’Istat, le famiglie italiane totalmente indigenti sono circa 335 mila in più rispetto all’anno 2019: si tratta di un 7,7% di incremento, tenuto conto della cifra tonda di 2 milioni rapportata all’anno 2020. Traduzione su base individuale? 1 milione in più circa.
Significa che il sistema paese ha perso e sta perdendo enormi fette di chance in termini di virtuosismo economico: più una società tende all’indigenza, meno i prodotti e i servizi di media apprensione risulteranno appetibili, con tutti gli effetti negativi che ciò implicherà in termini di riflesso nella vita reale (scorte di magazzino, vendite sottoprezzo, meno valore imponibile, ecc.).
Il tanto discusso reddito di cittadinanza ha certamente rappresentato (e continua a rappresentare) un cuscinetto per evitare che, oltre ai nuovi indigenti, si aggiungessero i cronici stadiati nel periodo pre-riforma del primo Governo Conte (ci si riferisce all’esecutivo gialloverde).

Il reddito di emergenza, poi, ha fatto il suo ingresso nel sistema già affetto dalle conseguenze pandemiche: una misura sicuramente insufficiente.
Nel frattempo, le povertà galoppano: economicamente, educativamente e imprenditorialmente. Cose che, messe insieme (e nello stesso tempo), possono costituire un mix sociale di difficile controllo, se non si interviene presto e ragionando per macro-tendenza. Quindi, la prima questione è intervenire sulla gestione delle povertà crescenti, senza trascurare quelle accertate.
Un esempio su tutti: si potrebbe procedere con l’istituzione di un reddito di esistenza per il tempo politico-socioeconomico necessario a generare la rispesa? Al netto della fattibilità (che ove mai attuabile diventerebbe una sorta di cappello su reddito di cittadinanza e di emergenza), in questo momento storico cosa è primario tutelare?
Certamente la persona umana: questo può avvenire su due rilievi essenziali, ovvero la salute (non solo legata al Covid) e il mantenimento in vita dell’individuo. Ce lo impone non solo la nostra etichetta di Paese avanzato, ma soprattutto il nostro dettato costituzionale, euro unitario e internazionale (riferimento, ovvio, alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo).

Stiamo vivendo un momento storico di eccezionale portata: ce lo siamo detti e ridetti chissà quante volte da quando è scattata l’emergenza. Dobbiamo però attenerci a una regola di base: se le imprese non lavorano e non creano valore imponibile, non ci saranno imposte, tasse e versamenti fiscali. Traduzione: zero introiti per l’Erario. Questo sul piano economico.
Sul piano sociale, non siamo tanto lontani: se le imprese non lavorano, non c’è imponibile ai fini d’imposta e pertanto non c’è reinvestimento aziendale, ma consumo del risparmio o dei prestiti per il mantenimento dell’impresa stessa, compreso il costo diretto e/o indiretto del blocco dei licenziamenti. Il che si semplifica in una parola: chiusura nel giro di poco tempo, sempre che non si fallisca prima.
Allora la domanda delle domande è “quanto costa non prevedere un piano di esistenza piuttosto che centellinare ristori e misure di emergenza che stanno portando le classi medio basse ad allargare la fetta indigente?”. Si badi bene che parlare di misura di esistenza, in questa chiave di ragionamento, non sta a voler pontificare su un preludio di socialismo o comunismo, ma a conservare e mantenere il sottile equilibrio che c’è tra eguaglianza formale e sostanziale per come enunciata nella Costituzione italiana.

Principio di eguaglianza che si lega al primario valore di un paese democratico come il nostro. Non c’è democrazia senza la pari accessibilità alle libertà.
Se come sistema paese non siamo e non saremo in grado di preservare la parità di trattamento, allora ben presto le libertà, in termini pratici e di effettività, rischieranno di dipendere da coloro che avranno potere d’acquisto o potere d’imperio, oppure potere di aggregare inneggiando a politiche di estremo ordine. Non dimentichiamo che il Recovery plan servirà per gli investimenti e non per i mantenimenti.
Il punto cruciale, in conclusione, è: su cosa e su quale economica lo Stato investirà se, nel frattempo, perderà le economie di mantenimento? Come potrà riabilitare tutta la classe imprenditoriale che nel tempo della pandemia chiude, fallisce, si indebita cronicamente, diventa morosa verso altri privati e verso l’erario?
La sfida, in termini di vision, sta proprio in questo: riabilitare al lavoro, perché quest’ultimo equivale alla dignità sociale di cui l’individuo necessita come il “pane”. Sia chiaro, però, che le misure di sostegno e di contrasto alla povertà non devono trasformarsi in misure di addormentamento della coscienza e dell’intraprendenza.

Stessa cosa per il reddito di cittadinanza, tenuto conto che le offerte lavorative, stando alle previsioni degli esperti, scarseggeranno nel periodo post-pandemico: su questo fronte si potrebbe pensare a una revisione sistematica volta a favorire l’uscita dal sostegno per coloro che, non trovando lavoro di natura dipendente, potrebbero avviare un’attività (ad esempio a condizioni fiscali vantaggiose) al fine di reinserirsi nel mondo produttivo in via autonoma.
Lo Stato, così, ottimizzerebbe al massimo la spesa pubblica, poiché riconquisterebbe un contribuente-partita iva dopo averlo aiutato a uscire dallo stato di sofferenza-indigenza.
Non pensare a questo significa, sempre se attendibile e valido come ragionamento, portare il Paese a percorre una via senza uscita. Si rischia che investitori molto preparati finalizzino la pandemia per svuotare il paese di maestranze, eccellenze, ma più di tutto intraprendenza. In buona sostanza, soggiogarlo anche in termini geopolitici.
Non dimentichiamo, quindi, che le libertà sono tali se funziona l’ascensore sociale, o quantomeno ne è garantita l’oscillazione dei livelli al fine del suo funzionamento. Curare le povertà è un imperativo politico che le libertà stesse, enunciate nella nostra Costituzione, ci ricordano costantemente.
Può definirsi l’Italia un paese liberale? Le proteste nelle piazze delle partite iva negli ultimi giorni ci raccontano che se il cittadino non riesce a sopravvivere, prima o poi delle libertà non saprà che farsene.
Se l’Europa ha paura di generare inflazione, aiutando direttamente le famiglie erogando per tasca, forse dovrebbe temere maggiormente di non avere più, da qui a qualche tempo futuro, Paesi dell’area comunitaria non rispondenti a logiche esterne.