Se la città di New York potesse parlare, probabilmente oggi parafraserebbe Mark Twain: “le notizie sulla mia morte sono ampiamente esagerate”. Da settimane, infatti, si fa un gran parlare del presente, e soprattutto del futuro, della Grande Mela, dipingendola con toni cupi, quasi apocalittici. Nel leggere le analisi e le opinioni delle ultime settimane, mi sono in realtà convinto che molte di esse manchino completamente di prospettiva. Così facendo, finiscono per trasformare i problemi correnti in scenari di lungo termine, giungendo a conclusioni infondate.
Sebbene a New York il virus risulti oggi sotto controllo (34 casi ogni milione di abitanti, contro i 600 di metà aprile), e nonostante le diverse fasi di riapertura susseguitesi da maggio in poi, è certamente innegabile che la città stia vivendo una fase difficile: gli uffici sono per lo più ancora vuoti, alcuni residenti sono “fuggiti”, i turisti continuano a scarseggiare e le casse comunali, di conseguenza, languono (con tutto quello che ne consegue in termini di pulizia e sicurezza della città). Pensare però che non ci sia alcuna luce in fondo al tunnel, e che questa sia addirittura la “fine di New York”, come sostenuto da qualcuno, è decisamente esagerato.

La tesi dei detrattori di New York ruota tutta attorno allo “svuotamento” della città, che viene dato, erroneamente, per definitivo: chi ha lasciato la città non tornerà, potendo lavorare in remoto “altrove” (si legga: luogo in cui il costo della vita è infinitamente inferiore rispetto a quello di New York). Stesso discorso per i pendolari, che non avranno più bisogno di recarsi in ufficio, potendo lavorare da casa. A ciò si aggiunge poi la convinzione che la stragrande maggioranza delle aziende adotterà, da qui in avanti, modelli organizzativi basati sul remote working, analogamente a quanto fatto negli ultimi mesi.
Tutto ciò, però, non è affatto scontato. Sono infatti molte, negli USA, le realtà aziendali che nel corso degli ultimi 10-15 anni hanno provato ad introdurre modelli organizzativi basati sul lavoro in remoto, quasi sempre preferendo poi optare per modelli più tradizionalmente office-based. Il caso in assoluto più emblematico è quello di IBM, tra i pionieri del remote working a livello globale, tanto da arrivare ad avere una quota pari al 40% di remote workers sul totale dei dipendenti nel 2009. Pochi anni più tardi, però, nel 2017, IBM decretò che quel modello non andava più bene, additandolo addirittura come una delle principali cause del calo di produttività registrato dall’azienda, costringendo molti di quei dipendenti a scegliere tra due sole opzioni: trasferirsi presso una delle sedi fisiche dell’azienda o essere licenziati. Tutto ciò, al fine di migliorare la collaborazione interpersonale tra i lavoratori e aumentarne l’efficienza.
Solo qualche anno prima, nel 2013, era stata invece Yahoo a fare marcia indietro rispetto al lavoro in remoto e pochi anni dopo Bank of America ed Aetna si sono mosse in direzione analoga.

È invece di pochi giorni fa la notizia che JP Morgan ha richiamato nei propri uffici di New York molti dei suoi senior manager dopo mesi di remote working, e lo stesso avrebbe fatto il colosso farmaceutico AbbVie, sottolineando che la “collaborazione interfunzionale” in ufficio è stata il punto di forza delle elevate prestazioni dell’azienda negli ultimi anni. Negli stessi giorni, società come Twitter e VMware annunciavano invece che i dipendenti che hanno optato per il lavoro in remoto, lasciando la Silicon Valley, potrebbero subire una decurtazione del proprio stipendio fino al 18%.
Insomma, l’idea secondo cui, finita la pandemia, nulla sarà più come prima e continueremo tutti a lavorare da casa, sembra piuttosto fantasiosa. D’altronde non si spiegherebbe perché ad agosto Facebook annunciava di aver firmato un contratto di affitto per un nuovo ufficio da circa 65.000 mq a Manhattan e TikTok a sua volta comunicava di aver individuato a Times Square il suo nuovo headquarters per un’area complessiva di oltre 20.500 mq. E nello stesso periodo Amazon annunciava 2.000 nuove assunzioni (fisiche) presso l’ufficio di New York (acquistato un anno fa per $978 milioni), in aggiunta agli attuali 24.000 dipendenti che lavorano attualmente in città.

Se lavorare da casa fosse poi davvero così diffusamente efficiente e conveniente, non si spiegherebbe neppure il successo registrato prime della pandemia da diverse realtà di co-working space, WeWork in primis (affermatasi di recente anche in Italia, in particolare a Milano). È infatti interessante notare come anche chi, per definizione in quanto freelance, avrebbe potuto tranquillamente lavorare da casa, ha invece preferito optare per uno spazio in condivisione con altri soggetti, andando così ad appagare un bisogno innato di socialità, che evidentemente abbiamo anche sul lavoro.
Che ci siano determinati lavori che possono essere svolti tranquillamente in remoto, lo sapevamo in realtà anche prima della pandemia. Nessuno, tra l’altro, mette in discussione che, sull’onda di quanto sperimentato negli ultimi mesi, la quota di remote workers possa aumentare nei prossimi anni, ma da qui a decretare la fine dei centri urbani così come sono stati concepiti fino a oggi, ce ne passa. Ci sono tra l’altro numerosi studi, svolti in tempi non sospetti, che mettono in correlazione concetti quali l’alta densità di popolazione e l’elevato capitale umano (caratterizzato da quote di conseguimento universitario elevate), con una maggiore produttività (nel senso più ampio e nobile del termine), soprattutto per settori industriali quali l’informazione, la finanza, le arti, l’intrattenimento e i servizi professionali; tutti settori, questi, che privilegiano la creatività e la condivisione delle idee. Da questo punto di vista, New York rappresenta da sempre il modello ideale.
Sulla stessa lunghezza d’onda c’è poi un altro studio condotto nel 2012 dalla University of Pennsylvania, che ha dimostrato che le aziende sono più produttive, in media, nelle città più grandi. Rispetto a ciò, sono state offerte due spiegazioni principali: una legata alla “concorrenza” (le città più grandi rafforzano la concorrenza, consentendo solo a quelle più produttive di sopravvivere) ed una legata alle c.d. “economie di agglomerazione” (le città più grandi promuovono interazioni che aumentano la produttività, come spiegato al paragrafo precedente), possibilmente rafforzate da “vantaggi naturali localizzati” (si pensi ad esempio alla Silicon Valley, per quanto riguarda lo sviluppo di nuove tecnologie o a Wall Street, per quanto riguarda la finanza e l’accesso ai capitali).
Quando si dice che a New York c’è un’energia che è diversa da qualunque altra città al mondo, questi sono gli elementi a cui si fa riferimento e che giustificano una frase tanto audace, quanto vera. Affermare quindi che, una volta terminata la pandemia, New York tornerà a rivestire il ruolo di “capitale del mondo” che ha acquisito nel ventesimo secolo, non è solo una romantica speranza, bensì una fondata certezza.