Scrivania vista mare. Panelle e crocché per smorzare la fame di metà mattinata. Un buon bicchiere di vino locale da degustare in compagnia dei propri affetti al termine di una giornata di lavoro intensa. Nessuna videochiamata Skype ai nonni o alla mamma alla sera. Nessun aereo da prenotare con diversi mesi d’anticipo per poter tornare a casa a Natale o Ferragosto. Una nuotata al largo di una spiaggia libera, un weekend d’arte o una gita in montagna per scoprire e riscoprire le bellezze delle propria terra.
Forse. Anche. Perché no? Una sfilza di luoghi comuni, direte. In mezzo a tanti piccoli piaceri della vita, dettagli che fanno la differenza nel contribuire alla qualità dell’esistenza di ciascuno di noi. Principalmente, però, la possibilità, che molti si vedono negata, di fare il lavoro dei propri sogni e di perseguire le proprie ambizioni senza essere costretti a vivere a centinaia o migliaia di chilometri dal proprio paese d’origine, o in contesti dove trovare un equilibrio tra la realizzazione personale e professionale è difficile. Contribuendo fattivamente, al contempo, alla crescita di quei luoghi lasciati ormai da anni or sono, dove si è coltivata la remota speranza di poter fare rientro un giorno.
E se fosse, ad esempio, un paesino dell’entroterra nisseno a ripopolarsi di cervelli ‘altamente qualificati’ e ad arricchirsi di spazi di co-working in comunicazione diretta con Milano, Copenaghen, New York o, magari, un piccolo centro del Kansas?
Sono gli scenari, tutti possibili e compatibili, ai quali guarda il progetto South Working – Lavorare dal Sud, partorito in tempo di Covid dalla ricercatrice palermitana Elena Militello e pronto a prendere corpo grazie al lavoro dell’associazione Global Shapers Palermo Hub.
La crisi scaturita dalla pandemia diventa occasione per ripensare il rapporto tra dipendenti e impresa, territorio e comunità, Nord e Sud, grazie alle possibilità offerte dal lavoro agile e dalle nuove tecnologie. Ma non solo. Perché a dispetto del nome di sicuro impatto e ben connotato, il progetto punta a rivoluzionare le prospettive di lavoro e di vita delle nuove schiere di migranti intellettuali e di sogni, senza limitazione alcuna e a tutte le latitudini. Anzi, ciascuno a partire dalla propria, di latitudine. Mettendo al centro la possibilità di scegliere la propria residenza in base alle priorità di vita e non solo alla sede dell’azienda per cui si lavora.
Due gli assunti da cui provare a ripartire: il Meridione come concetto relativo, per cui ‘Siamo tutti il Sud di qualcun altro’ parafrasando Luciano De Crescenzo – e il concetto di giving back inteso quale “restituzione” alla comunità d’origine in termini di creazione di valore e innovazione. Un ritorno alle origini che allo stesso tempo possa tradursi, insomma, in ritorno socio-culturale ed economico, grazie a un’inversione di paradigma: un’iniezione di liquidità, ma anche di energie e competenze che diano ossigeno e nuova linfa a territori da decenni depredati di risorse e vitalità. In che modo? A spiegarcelo è proprio l’ideatrice di South Working, in questa intervista a noi concessa.
Elena, il progetto da te ideato insieme ad altri giovani professionisti sta suscitando un interesse crescente in queste settimane. Da quali riflessioni nasce e come trova appiglio all’interno di un contesto siciliano spesso percepito come restio al cambiamento?
“L’idea del progetto South Working nasce a marzo, durante un lungo isolamento legato alla crisi sanitaria. In quei mesi vivevo in Lussemburgo per un contratto di ricerca. Dopo tre settimane di isolamento e un tampone negativo, sono rimpatriata in Italia e ho continuato a lavorare da Palermo a distanza fino alla scadenza del contratto. Parlando anche con moltissimi altri ex-colleghi e amici, con cui negli anni avevamo immaginato di poter tornare, un giorno, nelle regioni del Sud per contribuire allo sviluppo dell’ecosistema, mi sono resa conto che, in alcuni casi, ci sarebbe stata la possibilità di rendere permanenti dei contratti di lavoro in via principale, permettendo ai lavoratori di scegliere la propria residenza sulla base delle proprie priorità di vita e non solo della localizzazione della sede dell’azienda.

Per molti giovani, emigrati dai luoghi in cui sono cresciuti già da diversi anni, tali modalità di lavoro potrebbero consentire a chi lo desidera di rientrare nei territori da cui provengono, che si tratti dell’Italia rispetto all’estero o del Sud Italia rispetto al Nord Italia. Nella situazione attuale, tantissimi soggetti che sono stati protagonisti di migrazioni intellettuali e che sono già altamente qualificati si trovano già nelle regioni in cui si trovano le famiglie e gli affetti e in cui percepiscono una migliore qualità della vita. Ho presentato la mia idea a diversi amici e all’associazione di cui faccio parte, Global Shapers Palermo Hub, e ho trovato un terreno fertile. Parlando, in questi mesi, con moltissimi soggetti, tra cui anche seconde generazioni di italiani all’estero, percepisco un grande entusiasmo e una volontà di trarre qualcosa di positivo dall’esperienza tragica di questi mesi, anche ‘ridando indietro’ (giving back) alle comunità di origine in termini di creazione di valore e innovazione sociale”.
Colmare le distanze geografiche, ma anche e soprattutto il divario socio-economico fra Nord e Sud è la sfida che, dagli inizi del secolo scorso a oggi, nessuna compagine politica o piano di rilancio per il Mezzogiorno hanno mai vinto. In che modo South Working può giocare un ruolo in questa partita?
“Le politiche su cui tradizionalmente si sono basati i tentativi di colmare il divario territoriale tra le regioni meridionali e quelle settentrionali sono state incentrate su una successione teorica tra il miglioramento di servizi e infrastrutture, gli incentivi agli investimenti delle imprese al Sud e poi l’assunzione di lavoratori. Tuttavia, non essendosi realizzati gli auspicati miglioramenti in relazione ai servizi e alle infrastrutture, gli incentivi annunciati per le aziende non sono stati sufficienti ad attrarre investimenti reali e duraturi. L’idea di South Working è di invertire questo tradizionale modo di procedere, spostando immediatamente alcuni lavoratori che lo desiderano al Sud, iniettando liquidità nell’economia, tramite i consumi nel breve termine e anche gli investimenti nel medio termine, stimolando anche l’intero ecosistema all’ideazione di nuove risposte ai problemi storicamente percepiti”.
Sulla base delle analisi che state conducendo, quali sono le criticità con cui misurarsi, quali invece le potenzialità dei territori in cui South Working punta a innestarsi?
“Sicuramente i territori di destinazione dei South Workers sono attraversati da criticità di vario tipo, dalla recessione già pre-Covid ad altissimi tassi di disoccupazione, gravi carenze nei servizi pubblici e, in taluni casi, cattiva gestione della cosa pubblica. I lavoratori che vorrebbero stipulare contratti di lavoro a distanza in via principale dovrebbero essere a conoscenza delle criticità, accettando di spostarsi o restare a vivere in tali territori, e voler contribuire al miglioramento delle diseguaglianze esistenti, mettendo al servizio della collettività anche il loro tempo e le loro competenze acquisite anche tramite le esperienze di mobilità. I territori di destinazione dei South Workers presentano, al contempo, molte potenzialità, non solo nei termini giornalisticamente descritti come di sole, mare o cibo, ma soprattutto di nuovi equilibri tra vita personale e professionale, collaborazione intergenerazionale, strutturazione di reti sociali”.
Qualora prendesse piede, una rivoluzione del genere potrebbe cambiare il volto delle città. Su tutte penso a Milano – principale meta dell’emigrazione interna Sud-Nord – che in questi mesi si interroga sugli impatti che lo smart working sta avendo sugli scenari urbani e sul tessuto economico. Che cosa dovrebbe incentivare le aziende del Nord ad aderire a South Working?
“Le aziende/datori di lavoro potrebbero godere di considerevoli risparmi in termini di affitti e spese connesse alle necessità di convogliare in un unico luogo un numero considerevole di dipendenti. Esistono già studi di scienza dell’amministrazione che sottolineano i potenziali vantaggi del lavoro a distanza per obiettivi per il datore di lavoro, in termini di incremento di produttività, miglioramento delle competenze digitali dei lavoratori e della loro motivazione, riduzione degli straordinari e dei fenomeni di assenteismo, ottimizzazione dei costi, miglioramento della reputazione anche a livello di responsabilità sociale d’impresa (CSR)”.
A dispetto del nome, che focalizza meritatamente l’attenzione su un Meridione che si sta spopolando a un ritmo sostenuto, South Working si basa su una modalità di lavoro potenzialmente applicabile a diversi contesti e situazioni, dunque. Ritieni possano esserci le condizioni per connettere, ad esempio, un piccolo centro delle aree interne a grandi metropoli anche al di fuori del mercato italiano ed europeo, come la nostra New York?
“South Working vuole ripensare il rapporto tra impresa e dipendente, tra territorio e comunità, tra il Nord e il Sud d’Italia, d’Europa e globale, per promuovere una crescita sostenibile e una maggiore coesione territoriale e sociale, superando le tradizionali divisioni geografiche. Infatti, in questi mesi ripeto spesso che ‘il Sud è un concetto relativo e siamo tutti il Sud di qualcun altro’. Pertanto, nulla impedisce che si possa ampliare il South Working anche a territori come i piccoli centri statunitensi rispetto alle metropoli, anche tenendo in considerazione le molte imprese con sede negli Stati Uniti che hanno annunciato una tendenza alla diffusione del telecommuting anche oltre il periodo di crisi sanitaria (e.g., oltre alle grandi imprese tech)”.
Leggendo le reazioni alla vostra iniziativa, una delle principali perplessità manifestate è legata al fatto che per chi lavora dal Sud le aziende potrebbero abbassare il livello degli stipendi, in ragione di un costo della vita mediamente più basso rispetto al Nord. In molti si chiedono inoltre se le aziende – resesi conto del fatto che professionalità per cui è tradizionalmente richiesta una presenza fisica possono lavorare completamente da remoto – scelgano di allargare lo sguardo al di fuori del mercato italiano, a Paesi dove magari non esistono gli stessi vincoli e diritti, come peraltro già avviene per alcune mansioni. Come rispondete a tali osservazioni?
“Come South Working, non prendiamo posizione sulla possibilità di ridurre gli stipendi in base al costo della vita, adottando una concezione piuttosto diffusa per cui si fissa il salario, quantomeno la quota fissa, sulla base delle competenze e della produttività, e non anche del costo della vita. La possibilità di lavorare in via principale a distanza dal luogo che si preferisce potrebbe inoltre costituire un benefit per alcuni lavoratori. Quanto alla tutela dei lavoratori, si fa riferimento principalmente a situazioni intraeuropee, in cui per talune professionalità si assiste già da anni alla scelta da parte di alcune aziende di alcuni Paesi membri ritenuti più economici o meno garantiti. Il target principale di un progetto come South Working è rappresentato dai lavoratori altamente qualificati, che apportano un elevato valore aggiunto alle aziende per cui lavorano. E che, perciò, dovrebbero resistere meglio alle trasformazioni dirompenti del mercato del lavoro che si prospettano in relazione alle potenzialità dell’intelligenza artificiale, del machine learning e della robotica, su cui potrebbe puntare l’Unione Europea”.
Quanto alle piccole-medie imprese che continuano a rappresentare l’ossatura del Paese, ritenete possano accedere a progetti di questo tipo al pari di grandi multinazionali già strutturate e preparate a gestire queste modalità di lavoro? In particolare, come si può colmare quel gap di competenze tecnologiche che ancora rappresenta uno dei principali ostacoli alla loro competitività nel mercato globalizzato?
“La nostra idea di progetto include, accanto alla raccolta dei dati e all’aiuto ai lavoratori South Workers, anche un servizio, in fase di strutturazione, di consulenza per le aziende che vogliano adottare modalità di lavoro a distanza in via principale, permettendo loro di adottare modalità definibili come un vero lavoro agile, per obiettivi, quello che in Italia è noto come smart working. Ciò comporta un rapporto personalizzato con l’azienda, sulla base delle figure che richiedono una modifica delle modalità di lavoro in South Working, che spazi da un’attenzione giuslavoristica ai diritti del lavoratore, alla scelta dei software adatti al lavoro in team a distanza, alla selezione di appositi canali di formazione sul lavoro agile. Sia a livello manageriale in relazione al mindset, per superare una concezione di leadership basata sul controllo e individuare nuovi indicatori di performance, sia a livello dei lavoratori, con il supporto agli stessi anche sui territori di destinazione”.
Quali sono i vostri prossimi passi e obiettivi?
“Nel breve termine stiamo aumentando la consapevolezza delle possibilità che può offrire il South Working per tutti coloro possono lavorare a distanza e dell’esistenza di contratti di lavoro strutturati in questo modo. Stiamo lavorando su tre assi: un osservatorio con ricerche statistico-sociologiche sui numeri potenzialmente coinvolti, inizialmente tramite un questionario rivolto ai lavoratori che sta già circolando con ampia diffusione, ma anche raccogliendo contributi di potenziali interessati e raccontando storie di migrazioni intellettuali; la collaborazione con le imprese; il rapporto dei South Workers con i territori e le comunità di destinazione, anche tramite la creazione di una rete tra i coworking esistenti per evitare le sensazioni di isolamento che hanno caratterizzato il telelavoro emergenziale durante il lockdown.
Nel medio termine vogliamo stimolare una collaborazione strutturata tra i vari soggetti interessati e tra i vari livelli di governo per agevolare chi decide di iniziare a lavorare in modalità “south working” (ad esempio, puntando al miglioramento delle infrastrutture digitali necessarie a un lavoro sicuro ed efficiente; partecipando a bandi che promuovano la coesione territoriale, la partecipazione, la collaborazione e la socialità).
Nel lungo periodo, immaginiamo di creare una maggiore flessibilità per una vasta gamma di lavoratrici e lavoratori, anche a livello intraeuropeo, che potranno approfittare delle reti di soggetti già esistenti per una maggiore mobilità, una maggiore qualità della vita e vicinanza alle proprie reti sociali (rammentando che il Sud rimane un concetto relativo)”.