Da quattro decenni Infocamere gestisce il Registro delle Imprese, una vera e propria anagrafe ufficiale per imprese, professionisti, pubblica amministrazione, investitori e compratori esteri. Soci e proprietari della società sono le Camere di Commercio, espressione della pubblica amministrazione. Nei mesi di Covid-19 i più di mille dipendenti dell’azienda stanno nella gran parte operando in modalità di telelavoro, il che sta imponendo a Infocamere una seria riflessione sui modelli di organizzazione, non solo aziendale, proposti dal digitale. L’accelerazione nell’uso generalizzato degli strumenti digitali, crea di fatto, se non una nuova società, nuove modalità dello stare insieme e del lavorare. Vi sono rischi e opportunità, come sempre quando vi è innovazione.
È lecito immaginare che quando tutto tornerà alla “normalità”, non tutto sarà come prima: e il digitale, in quella nuova normalità avrà conquistato sicuramente una fetta di potere in più. Di questo e altro, il nostro opinionista Luigi Troiani ragiona con Paolo Ghezzi, 59 anni, da cinque direttore generale di Infocamere, una laurea in Scienze dell’Informazione conseguita presso l’Università degli Studi di Pisa, e formazione manageriale acquisita, tra gli altri, presso Sda Bocconi e Club Ambrosetti.

Troiani – In un recente articolo su questo giornale, richiamavo la rilevanza che il Registro delle Imprese può assumere nella politica estera economica dell’Italia, in quanto strumento che garantisce trasparenza all’imprenditore estero che voglia investire nel nostro paese o avere relazioni d’affari con soggetti imprenditoriali qui operanti. Si tratta di uno strumento che i nostri concorrenti non possiedono, almeno non con le caratteristiche di eccellenza proprie del Registro italiano. Diffondere la conoscenza del Registro significa quindi, tra le altre cose, favorire la capacità competitiva nazionale. Come direttore generale di InfoCamere, il soggetto imprenditoriale al quale la legge ha affidato la tenuta del Registro, puoi rappresentarci i punti di forza del Registro delle imprese e la sua penetrazione all’estero?
Ghezzi – L’esplosione della società digitale ha innescato una vertiginosa crescita dei dati a nostra disposizione. Le imprese si stanno rendendo conto che raccogliere, analizzare e integrare il maggior numero di informazioni possibile è indispensabile per fare scelte consapevoli e cogliere nuove opportunità. Per riuscirci, è però molto importante sapersi orientare tra le fonti e saper scegliere dati di qualità.
Il Registro delle imprese delle Camere di commercio – gestito da InfoCamere – è la fonte ufficiale e costantemente aggiornata sui 6 milioni di imprese che operano in Italia e i 10 milioni di imprenditori che vi lavorano. La forza del Registro è nel suo essere stato concepito e realizzato – già venticinque anni fa – in modalità totalmente informatica e di essere perciò accessibile online a tutti in modo semplice, sicuro e veloce. Per il pubblico internazionale che vede le imprese italiane come partner privilegiati, abbiamo da poco realizzato un portale completamente in lingua inglese www.italianbusinessregister.it da cui accedere ancora più facilmente ai dati ufficiali sui protagonisti del Made in Italy.
Con pochi passaggi, anche dal proprio smartphone, è possibile avere company profile aggiornati e già tradotti in inglese, bilanci ufficiali su circa 1 milione di società di capitali, analisi dettagliate delle governance societarie, mappe interattive sulle ownership e le partnership delle aziende, certificazioni di qualità, informazioni su eventuali default dell’impresa o dei suoi manager. Dati indispensabili per guidare oggi un’impresa nella data-driven economy e che, grazie agli strumenti digitali che realizziamo, sono alla portata di tutti.
Hai esposto alcune critiche a piattaforme di prenotazione come Booking e Airbnb, e ai modelli di commercio elettronico cinese e statunitense, i cui rispettivi campioni sono, probabilmente, Alibaba e Amazon. Mi piacerebbe se tu potessi articolare le ragioni della critica e se, in particolare, potessi diffonderti sulla tua proposta di un modello europeo che s’inserisca tra la totale deregolamentazioni statunitense e il totale dirigismo cinese. Credo che, nella questioni da te posta, occorra garantire una serie di elementi: la convenienza per i titolari della piattaforma e per i clienti innanzitutto, altrimenti non si avrebbe incontro tra offerta e domanda. Ma anche la trasparenza delle regole, l’equa tassazione dei profitti, la garanzia di etica e privacy. Il fatto è che se il primo aspetto è neutro nel senso che spetta al mercato fissare le reciproche convenienze degli attori dei mercati online, gli altri sembrano tutti dipendere dalla volontà politica che ha la potestà di imporre le regole. Sterilizzata, almeno per ora, la capacità del sistema internazionale di stabilire tavoli multilaterali che fissino regole universali, muovono il far west del commercio elettronico due sistemi politici volitivi ai quali ribatte debolmente e sporadicamente la Commissione Europea, poco e male coadiuvata dai governi dei paesi Ue. Ecco perché sarebbe di grande interesse avere qualche chiarimento su come vedi il ruolo europeo in questa faccenda.
La ricerca di una leadership nel settore dei Big Data si sta giocando di fatto tra due pesi massimi: gli Usa e la Cina. Se vuole riaffermare un suo ruolo in questo scenario, l’Europa deve tornare ad investire. Non solo per recuperare terreno sul fronte dell’innovazione tecnologica, nella promozione delle best practice e sulla crescita delle competenze digitali. Lo spazio che l’Europa può occupare è quello di una leadership etica, in cui mettere al centro una visione di società digitale in cui tutti i cittadini europei possano sentirsi tutelati e in cui le imprese europee possano creare valore intorno ad una gestione del dato aperta al mercato ma rispettosa dei diritti di ciascuno.
Gli Stati Uniti hanno tradizionalmente operato in un regime di deregulation, visto che nella Federazione non esiste una legislazione unitaria nella protezione dei dati, bensì un insieme norme federali e dei singoli stati. Questo approccio ha permesso agli USA di ottenere dei vantaggi, come ad esempio una maggiore presenza di venture capital e un ampio sistema di imprese innovative, al costo però di una ridotta possibilità da parte dei consumatori di avere controllo sui propri dati. La Cina, invece, ha operato in un contesto di dirigismo statale sia per quanto riguarda le prassi di utilizzo del dato, sia per i forti investimenti a trazione pubblica in capitale umano ed infrastrutture. È così che gli interventi pubblici hanno facilitato l’accumularsi di ampie disponibilità di dati, a cui si abbina una estesa consumer base di utilizzatori di servizi digitali.
In questa partita globale, l’Europa ha l’occasione di essere l’ago della bilancia sul fronte fondamentale dell’etica. Nella sintesi ottenuta con il Gdpr – il regolamento generale per la protezione dei dati personali, primo esempio mondiale di legislazione unitaria dei principi di trattamento dei dati – l’Ue è riuscita ad incarnare un modello di riferimento per una gestione chiara e trasparente dei Big Data. La visione che ne è alla base ha tutte le potenzialità per imporsi come riferimento anche per gli altri Paesi, a patto di essere tradotta in politiche capaci di sostenere imprese e Pa europee nello sforzo di mettere il cittadino-utente al centro della propria offerta di beni e servizi digitali.
Da navigato attore della cyber sfera, ti sei fatto senz’altro un’idea di dove algoritmi e cultura digitale stiano trainando la nostra epoca. Nata come grande opportunità di liberazione da costrizioni millenarie (fatica, tempo e distanza, per fare qualche esempio), di accelerazione della comunicazione materiale e immateriale, di innalzamento di efficacia ed efficienza in tanti processi di creazione della ricchezza, lo spazio della comunicazione digitale sta soffrendo una serie di situazioni che rischiano di alterare alcune condizioni che ne hanno costituito sin dall’inizio le ragioni di successo. Le limitazioni e i controlli che molti governi stanno imponendo alla rete, e che tra l’altro generano chiusure e ritiri di operatori globali da questo o quel mercato, sono sicuramente il primo elemento di disturbo. Ma non vanno sottovalutate le domande che ci stiamo un po’ tutti ponendo sulla indecifrabilità degli effetti dell’immissione nelle nostre società di tecnologie come 5G, robotica, intelligenza artificiale.
Gli scenari in cui l’innovazione tecnologica si sta muovendo in questa fase non sono i più favorevoli al disegno alla base della nascita e dello sviluppo di Internet: condividere le conoscenze per favorire lo sviluppo delle abilità di ciascuno, nell’interesse della collettività. L’aumento dei controlli e l’introduzione di barriere ai mercati, da parte di molti governi, sono risposte alle crescenti insicurezze dei cittadini ma, a mio avviso, rendono più stretto e difficile il sentiero per governare i fenomeni sociali ed economici con cui ci dobbiamo misurare.
E’ vero: il futuro che le nuove tecnologie ci prospettano non ha confini definiti. Per questo i passaggi che abbiamo davanti a noi richiedono un supplemento di competenze, di capacità di visione e di sintesi politica di grande portata. Serve una visione che sappia coniugare tutti questi aspetti perché le scelte che stiamo facendo avranno implicazioni profonde sul tipo di società che vogliamo realizzare: innovativa, capace di reagire in modo adattivo a scenari in continuo movimento, rispettosa dei diritti di tutti.
Alzare muri non si è mai rivelata una scelta saggia nel lungo periodo. Personalmente sono convinto che la migliore garanzia per realizzare un modello di sviluppo inclusivo e sostenibile risieda nel rendere accessibili su larga scala gli asset digitali, e per questo serve far crescere le competenze.

Il decreto semplificazione, presentato nei giorni scorsi al Parlamento dal presidente del Consiglio Conte, dedica ampio spazio a un maggiore uso delle tecnologie informatiche nella pubblica amministrazione e nel sistema di istruzione pubblico. Già in passato tentativi del genere sono stati fatti, anche con qualche risultato positivo, benché non si sia data la percezione generalizzata di un miglioramento nella distanza tra amministrazione e amministrato. Essendo tu anche operatore di servizi di pubblica utilità, ed essendo esponente di un’azienda che è nata, molti decenni fa, per operare solo ed esclusivamente per via telematica, che opinione ti sei fatto dell’apporto che informatica e digitale sono chiamati a fornire al progetto complessivo messo in cantiere dal governo? Apparentemente, dal suo successo, dipenderà molto di quella ripresa italiana che tutti auspichiamo possa darsi nel corso del prossimo anno.

Leo Longanesi diceva che “Il facile è difficilissimo. Il semplice è complicatissimo”. In questi ultimi anni la Pubblica amministrazione italiana – anche se spesso in ordine sparso – ha realizzato alcuni importanti passi in avanti per avvicinare i propri servizi alle esigenze di cittadini e imprese. Le Camere di Commercio sono un esempio virtuoso da questo punto di vista. L’ultima iniziativa è stata portare letteralmente nelle mani degli imprenditori – gratuitamente e sul loro smartphone – tutti i dati ufficiali della loro azienda con la piattaforma impresa.italia.it, usata oggi da 700mila imprese.
Ma non dobbiamo dimenticare che, mentre noi cerchiamo di recuperare terreno, gli altri vanno avanti e il divario non si riduce. L’indice DESI – il Digital Economy and Society Index – nel 2020 ci vede “inchiodati” alla 25ma posizione nello sviluppo digitale europeo. Per uscire dal guado verso la modernità non basta fare bene i compiti. C’è bisogno di adottare un approccio disruptive che ci aiuti a compiere salti quantici, perché i piccoli progressi continui non bastano.
L’esperienza della pandemia in cui siamo ancora immersi ha portato molti a domandarsi come sarà la nostra vita quando tornerà ad essere normale. In questo futuro – che qualcuno ha ribattezzato “next normal”- la componente digitale sarà certamente pervasiva così come sarà determinante il ruolo della Pubblica amministrazione. Dal mio punto di vista, il successo in questa sfida passa dalla capacità di mettere a sistema competenze e best practice (quella del sistema camerale può essere un’ispirazione) nella gestione dei Big Data pubblici, nella progettazione di servizi facilmente integrabili su piattaforme sicure e fruibili in modalità mobile-first, nella crescita diffusa delle competenze di data analysis tra le imprese, specialmente le Pmi, le più a rischio di emarginazione digitale.
Soprattutto, serve una leadership capace di esprimere e portare a compimento una visione dell’Italia in cui le tante intermediazioni, su cui si regge la nostra società, smettano di essere ostacolo allo sviluppo dell’innovazione e diventino invece elemento creatore e moltiplicatore di valore a vantaggio di tutti.