Con luglio siamo al sesto mese di acclarata presenza di SARS-CoV-2 in Italia. Passata la fase acuta, il paese si è rimesso in moto, anche se con esitazioni e paure: teme che da novembre l’infezione torni a colpire pesantemente e che di conseguenza il sistema economico soffochi nell’inattività.
Ad inizio inverno il nostro sistema produttivo avrà comunque problemi sia sul lato dell’offerta (non tutte le imprese avranno ripreso l’attività e anche quelle che sono ripartite non lo avranno fatto tutte a pieni ranghi; non tutti i lavoratori e i professionisti saranno tornati alle collocazioni professionali di inizio anno) che della domanda (non tutti i compratori nazionali e internazionali avranno assunto i comportamenti pre-epidemici). Ci saranno strati di popolazione nazionale senza lavoro e a reddito di sussistenza che ridurranno gli acquisiti o se ne asterranno: ci saranno tradizionali importatori di beni italiani che dovranno comprimere o cancellare gli acquisti (non solo di beni di consumo ma di macchine utensili e beni intermedi laddove le catene di produzione che li utilizzano dovessero languire). In quella situazione, il debito pubblico, cresciuto a dismisura per far fronte alle esigenze sociali e sanitarie epidemiche, forse sino al 170% della ricchezza annua prodotta, non troverà nel mercato della produzione e degli scambi il finanziamento dell’avvio del rientro, anche perché mentre diminuiranno gli ingressi fiscali potrà continuare ad imporsi la necessità di esborsi sociali e sanitari superiori alla media.
A fronte di questo scenario, il più probabile con il quale occorrerà confrontarsi di qui a poco, il governo sta mostrando due forti limiti, uno riguardante i contenuti delle decisioni, l’altro la tecnica con la quale queste sono assunte. Si parte dalle seconde, perché stanno rappresentando uno dei cavalli di battaglia dell’opposizione nelle critiche al governo. Precisato che non si aderisce alla campagna che ha identificato nell’uso reiterato dei Dpcm un attentato alla costituzione se non alla democrazia (i decreti del presidente del consiglio dei ministri sono stati dispositivi straordinari a tutela della salute pubblica che si confrontavano con una pandemia altrettanto straordinaria), si esprime preoccupazione rispetto a un costume che sta caratterizzando l’attività di governo: gli impegni assunti non vanno a realizzazione o si attardano troppo tempo prima di diventare effettivi. L’intempestività è un fatto gravissimo in questa temperie che vede milioni di famiglie e imprese a corto di liquidità. Detto più crudamente: alle chiacchiere non seguono fatti.
L’esempio più tangibile viene dalle misure di sostegno ai titolari di partita IVA, imposta sul valore aggiunto, e ai lavoratori in cassa integrazione straordinaria. In molti di loro si sono visti negare un diritto al quale, in base a ciò che il governo aveva affermato, ritenevano di avere accesso: in molti, pur vedendosi confermato il diritto, non hanno percepito il becco d’un quattrino. Il governo sembra dimenticare che l’effetto annuncio è come un boomerang: l’onda di consenso guadagnato in prima battuta tra gli elettori, laddove le promesse non si realizzano produce un’onda di rientro che sa di tsunami.
Andando ai contenuti, si saltano a piè pari quelli dei cosiddetti “stati generali dell’economia” di villa Pamphilj, convocati dal governo a metà giugno per interloquire con autorità e imprese. Il meno che si possa dire è che non ce ne fosse bisogno. Si continuano a far proliferare occasioni le più varie che scialacquano tempo e aperitivi, tra comitati tecnici consultivi ed esibizioni di personaggi tirati a lucido, quando servono decisioni e soprattutto la loro concreta trasformazione in fatti. Le amministrazioni dello stato costano una cifra iperbolica al cittadino contribuente: si usino le sedi istituzionali per il lavoro al quale sono deputate. Per capirsi, sarebbe stato il caso, se proprio il governo sentiva l’esigenza di un “ascolto” straordinario, servirsi dell’organo costituzionale Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, dove trovano voce continuata i rappresentanti dei vari segmenti dell’economia nazionale e che ha, come missione, anche quella di fornire pareri al governo e al parlamento.
Negli stati generali è circolato il cosiddetto Colao, più correttamente il rapporto per il presidente del Consiglio dei ministri, Iniziative per il rilancio “Italia 2020-2022”, del comitato di esperti in materia economica e sociale, istituito con Dpcm del 10 aprile 2020. Il comitato aveva già elaborato, il 24 aprile, un insieme di raccomandazioni per la riapertura di attività produttive in maggio. Qui si è spinto oltre, guardando all’insieme dei bisogni dell’economia, ma anche della società, nel prossimo triennio, pur evitando di addentrarsi in temi, come la scuola, la giustizia civile, la fiscalità, il welfare, che ritiene necessitino di più ampia considerazione. È pertanto un documento ambizioso, una sorta di piattaforma onnicomprensiva di ogni e qualunque azione utile a revisionare ciò che nel paese non funziona come dovrebbe. Peccato che il documento, per il linguaggio adottato e per quanto propone, risulti impastato di troppe codificazioni retoriche e luoghi comuni ai limiti della menzogna. Specialmente nella presente situazione di estrema difficoltà del paese, non aiutano, anzi.
Si prenda l’elenco dei punti di forza sui quali, secondo il comitato, l’Italia può fare affidamento. Tra di essi (citazione): creatività, dinamismo, imprenditorialità diffusa orientata all’export e una capacità di attrazione unica al mondo. Ovvero enunciazioni di scuola, ma non un solo elemento di concretezza a supporto.
“Creatività”: e cosa sarà mai? (E gli altri, quelli che ci fanno concorrenza sui mercati e magari ci battono, hanno meno creatività di noi?). Perché invece di vellicare con triti slogan la vanità nazionale, non si fa la lista dei brevetti partoriti in Italia, e soprattutto ci si chieda quanti di questi sono passati nelle nostre filiere produttive o sono stati venduti all’estero generando lavoro e profitti? Perché non si elencano le invenzioni italiane che hanno reso più competitive le nostre produzioni o hanno accresciuto il patrimonio nazionale, o che sono vendute in giro per il mondo?.

“Esportazioni”: nostro punto di forza, certamente. Ma davvero si può parlare oggi di esportazione negli stessi termini di inizio anno? A nessuno dei tanti esperti del comitato è venuto in mente che oggi potrebbe essere una palla al piede della nostra ripresa dover fare affidamento sugli acquisti di paesi alle prese con situazioni che impediranno gli acquisti? E non è forse il caso di richiamare un’antica lezione che, nella congiuntura torna di attualità, ovvero che ogni bene che esce da un paese è “sottratto” alla comunità nazionale, talvolta perché non ha risorse sufficienti per goderne? Dovremmo preoccuparci innanzitutto di come alzare la capacità di spesa e acquisto del mercato nazionale, visto che disponiamo di 55 milioni di acquirenti potenziali, troppi dei quali sono invece ai margini delle possibilità di acquisto, perché indigenti o poveri.
Sulla “capacità di attrazione unica al mondo”, si glissi con eleganza: se si voleva dire che siamo il paese che attira da sempre meno investimenti esteri diretti (Ide), rispetto ai nostri concorrenti, sì siamo davvero unici: i penultimi in Ue prima del fanalino Grecia, per ragioni, secondo lo studio della Confartigianato di Mestre del novembre 2019, come tasse, comportamenti amministrativi, poca certezza del diritto, “deficit infrastrutturale spaventoso”. Per questo sarebbe stato più opportuno individuare le cause che ci mettono da decenni nella coda dei gradimenti per investimenti internazionali e per immigrazione di rami alti dell’economia (investitori, alte competenze e alto reddito di chi chiede domicilio fiscale o residenza) e magari suggerire il modo di ridurre le ragioni che sono all’origine delle nefaste conseguenze. E comunque, a volerla dire tutta, risulterebbe già utile motivare investitori italiani e giovani talenti nazionali (anche questi sono un investimento per il paese!) a restare in Italia, invece di assistere all’emorragia inarrestabile verso l’estero di denaro e talenti che ora si imporrà anche più di prima, vista la situazione generata dal morbo.
Quando si affaccia sui punti di debolezza del sistema nazionale, il documento Colao, rispetto all’indeterminatezza dei punti di forza, diventa concreto e circostanziato. Tace tuttavia su talune debolezze strutturali, che sono al fondo della questione, perché sono quelle che scoraggiano gli investimenti esteri e spingono risorse nazionali a scappare a gambe levate da un paese dove vorrebbero invece restare non fosse altro per ragioni sentimentali e di relazioni umane. Ci si riferisce a due grandi ed eterne debolezze italiane: l’ingiustizia diffusa che viene amministrata dalla “casta” su tutto il resto della popolazione (attraverso provvedimenti dell’amministrazione, privilegi retributivi e guarentigie, fisco esoso e non equo che s’accanisce su lavoratori dipendenti e pensionati), l’inaffidabilità del sistema giudiziario di recente confermata dai clamorosi casi Palamara e Franco. Giustizia e fisco sono i punti chiave di qualunque stato di diritto contemporaneo: in Italia funzionano in una direzione che mortifica le capacità di sviluppo e rendono l’Italia, da decenni, paese in continua perdita di opportunità e posizioni rispetto ai concorrenti. Se il documento identifica con testarda precisione i danni inferti da Covid-19 e l’indispensabilità di intervenire per rintuzzarli, pecca quindi nell’elencare le misure per farvi fronte, scantonando dalle due tare dell’economia: l’assenza di equità e il drenaggio strutturale di risorse dal mondo del lavoro allo stato e alla “casta” che ne gestisce il bilancio, il che spiega anche il ritardo nella dotazione di infrastrutture e gli alti costi che queste assumono per essere realizzate.
Le indicazioni del comitato di esperti in materia economica e sociale reiterano concetti che circolano da decenni senza che abbiano avuto possibilità alcuna di tramutarsi in realtà. Scrivere che occorre “far leva sui grandi cambiamenti tecnologici, economici e sociali in atto”, non aiuta, se al tempo stesso ci si astiene dal suggerire come il “far leva” possa essere portato a realtà. Senza riforme profonde che impastino di fiducia il rapporto tra cittadini e stato, quell’auspicio non ha alcuna possibilità di trovare realizzazione. Sempre più cittadini in Italia ritengono il proprio paese un posto per “altri” non per se stessi: di conseguenza da “estranei” calano le braccia: non cercano più di occuparsi (gli inattivi sono cresciuti tra maggio e giugno di 746mila unità e di 1,46milioni in un anno, realizzando un tasso del 38,1%), non ricorrono più al giudice per torti subiti (15,6 milioni, il 30,7% della popolazione adulta, secondo il 52mo rapporto del Censis sulla situazione sociale del paese: il 16,2% di essi per sfiducia nella magistratura e nella giustizia), se possono emigrano.
Non una parola sul fatto che gli invocati “grandi cambiamenti tecnologici”, almeno nella prima lunga fase sono sempre forieri di licenziamenti, il che in un paese con tasso di occupazione inferiore al 58%, penultimo posto in Europa, non è proprio una confortante prospettiva.
Si comprende che quando il rapporto prova a suggerire misure da assumere, queste riportino genericità e auspici: cose che si leggono e scrivono da decenni, e che poco o niente hanno prodotto di concreto per le ragioni qui indicate. Si prenda la scuola: il rapporto correttamente evoca un dato che fa arrossire. Nel 2018, nei test del programma Ocse per la valutazione internazionale dell’allievo, PISA, i nostri studenti sono andati sotto la media OCSE (rispettivamente: 476 e 487 in lettura, 468 e 489 in scienze, 487 e 489 in matematica), in 34° posizione dietro a paesi come Belgio, Canada, Cina, Francia, Germania, Paesi Bassi, Polonia, Slovenia, Sud Corea, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti. Forse c’entra con questa vergognosa situazione, il fatto che l’Italia (2017) spenda in istruzione il 7,9% della spesa pubblica totale, ultima in graduatoria UE, rispetto all’11,3% del Regno Unito, il 9,6% della Francia, il 9,3% della Germania. Sul Pil spendiamo per l’istruzione il 3,9%, quartultimo posto in Europa, quasi un punto di distanza da una media (4,7%) che include paesi molto più poveri, e tra gli ultimi dei membri OCSE.
Le misure che il governo sta assumendo per la ripresa autunnale dell’istruzione pubblica neppure lontanamente echeggiano questo quadro: si pensi solo al numero tremendamente alto di insegnanti che mancheranno all’appello (85mila) e si capisce da dove si ricomincerà a settembre dopo essere stati costretti a buttare l’anno in corso. Asor Rosa ha scritto: “Siamo sull’orlo di un baratro ed è incredibile che il governo scarichi ogni responsabilità su quei poveri presidi”.
Possibile che nessuno si sia voluto chiedere, tra tante eccellenze menti professorali del comitato, come intervenire subito per evitare che il disastro odierno del sistema scolastico diventi domani il disastro del paese? Guardando agli studenti, è certo che se avessero consapevolezza che quando affronteranno la vita professionale il loro paese li remunererà per il sapere e le capacità, invece che per l’appartenenza e la fedeltà alla cordata di turno, sarebbero più stimolati al duro sudore sui banchi. Si aggiunga che i migliori tra quei ragazzi stanno già pianificando di abbandonare il paese per un futuro di rispetto e dignità altrove; apparentemente i troppi candidati “fuorusciti” non attribuiscono alla patria quella “capacità di attrazione unica al mondo” che i Colao boys hanno affermato come un dato acquisito (tra il 2006 e il 2019 il numero degli italiani che hanno scelto di vivere all’estero è cresciuto del 70,2% secondo Migrantes, portando a 5,3 milioni il numero degli iscritti all’anagrafe dei residenti all’estero, Aire, e 1 milione 180mila hanno tra 18 e 34 anni).
Alla luce di dati così seri, preesistenti a Covid-19 e che questo ha aggravato, si ribadisce che la debolezza maggiore di un rapporto che conosce i danni che soffre il sistema Italia, sta nella scarsa capacità di proposta. Per la revisione dello stato deprecabile di giustizia civile e fiscalità, questioni messe correttamente in testa tra le riforme da realizzare, non produce nessuna ricetta concreta, salvo palliativi come idee sullo scorciamento dei tempi della giustizia e l’eliminazione di qualche passaggio di troppo nelle procedure. Sul welfare, per dare un esempio concreto dello spirito non innovativo del progetto, manca ogni indicazione rispetto a tre soggetti di evidente sottotutela: pensionati, giovani al primo lavoro, donne con responsabilità (anche) di famiglia. Da qui la sensazione che l’indirizzo del governo (varata la correzione del cuneo fiscale, voluta da lavoratori dipendenti e imprese), sia di stare alla larga da riforme di struttura, adoperandosi per misure annuncio e piccola cosmesi là dove indispensabile.
Ulteriore esempio, che riguarda una delle incredibili cronicità del rapporto tra amministrazione cittadini e imprese. Lo stato italiano è notoriamente un pessimo pagatore: ma le imprese acconsentono a lavorare per le pubbliche amministrazioni, sia perché si tratta di opportunità delle quali abbisognano, sia perché, alla fine, “pantalone paga sempre” magari in ritardo ma paga. Su questa base, lo stato ha accumulato debiti verso fornitori di beni e servizi per una cifra che attualmente fluttua intorno a 57 miliardi di euro. Quale migliore occasione per sostenere le imprese in un frangente così complesso che pagare sull’unghia quanto loro dovuto? Si sarebbe generato un circolo virtuoso: la macchina pubblica non avrebbe sborsato regalie di emergenza a professionisti e imprese alzando ulteriormente il deficit, i fornitori avrebbero chiuso i contenziosi e riallineato i conti disponendo di liquidità a costo zero anzi arricchita degli interessi maturati, lavoratori e maestranze dei creditori avrebbero disposto di maggiori garanzie per il loro futuro. Da non sottovalutare, inoltre, che l’azione avrebbe rammendato il rapporto tra imprese e mano pubblica, fornendo una iniezione di fiducia nel buon comportamento dell’amministrazione. Niente di ciò; lo stato, esprimendo la pessima pedagogia di chi gode di posizione dominante, da un lato continua a non pagare quanto deve, dall’altra umilia il suo creditore imponendo lunghe trafile per accedere (forse!) a liquidità di favore che costerà ulteriore debito al bilancio e creerà un ulteriore rapporto di dipendenza dell’impresa verso uno stato che paradossalmente è suo debitore.
Al solito in questo tipo di scelte ci sono responsabilità della politica ma anche responsabilità degli amministratori, dirigenza e funzionariato pubblici, da decenni gratificati sul piano finanziario ma del tutto alieni dall’assumersi le responsabilità che a quelle prebende avrebbero dovuto associarsi. Da noi il dirigente pubblico risponde (forse) per fatti compiuti, mai per fatti omessi, per responsabilità non adempite. La memoria va a casi terribili per i quali non ha pagato un solo dirigente pubblico: fu così per il Vajont (1917 morti), per il volo Itavia 870 (81 morti). Facile profezia che sarà lo stesso per il crollo del ponte Morandi (43 morti), per il quale l’accanimento verso il concessionario dovrebbe evidentemente accompagnarsi al chiarimento sui comportamenti che nei decenni sono stati tenuti dalla dirigenza pubblica cui competeva la vigilanza.
Il terzo pilastro per ogni ipotesi di ricostruzione che guardi all’autentica ripresa italiana, non può che riguardare la funzione pubblica, in ogni sua espressione, scuola università e ricerca in primo luogo. Il governo cominci affossando il principio di lentocrazia, dando termini precisi all’evasione delle pratiche e obbligando la dirigenza ad esprimersi per un sì o un no su ogni questione le venga sottoposta. Sarebbe un bel passo avanti disporre di certezze invece che di un sistema di indeterminatezze; almeno in un quadro del genere, cittadino e imprese potranno proporre ricorso nelle opportune sedi in caso di dissenso sulla decisione dell’amministrazione.
Le considerazioni sin qui esposte si riverberano anche sull’opinione che si esprime rispetto all’iniziativa che il governo sta assumendo, in accordo con le associazioni di categoria, in materia di esportazioni. La lettura del documento pubblicato dal ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, Maeci, non fornisce indicazioni strategiche concrete. Non sarà il quasi miliardo e mezzo promesso per la promozione dell’immagine paese attraverso parole d’ordine pubblicitarie, ad attrarre gli stranieri compratori e investitori. Il cosiddetto “nation branding” (strano modo di procedere quello di infarcire di parole non italiane il progetto di vendita del prodotto Italia), attraverso investimenti in comunicazione e promozione utilizzando artisti e spettacoli, e strumenti come e-desk, Tem (temporary export manager) e Dem (digital export manager), oltre che enti fieristici, Istituto per il commercio estero e Sace agenzia, poco potranno, se non agiranno dentro una percezione internazionale dell’Italia diversa da quella del passato. Il patto tra rappresentanze imprenditoriali e Maeci afferma che si rendono “indispensabili … un coordinamento di natura strategica e la massima collaborazione fra la Farnesina, tutti i membri della Cabina di Regia per l’Italia internazionale ed il tessuto produttivo italiano per rispondere con efficacia alla crisi in corso.” Ma questo è l’auspicio dell’ovvio: chi potrebbe sostenere che è l’opposto ad essere “indispensabile”?
Di buono, nel documento c’è che decolla il ruolo principe del Maeci, dopo svariati decenni di tentata transizione dallo spezzettamento della funzione estera tra più ministeri economici all’affidamento a un centro di coordinamento che non poteva non trovarsi dove la politica estera economica del paese trova la sintesi politica. Detto questo, il documento pubblicato dal Maeci non fa sperare che le cose cambieranno rispetto all’incapacità mostrata in passato da regioni e governo centrale (fortunatamente in molte situazioni ha sopperito la professionalità e la dedizione degli uomini di Ice e diplomazia economica) di dare concreta priorità alla promozione del prodotto e servizio “Fatto in Italia”.
Su questa linea, quattro annotazioni su ciò che manca nel documento.
Non si fa cenno alla percezione che all’estero si ha del paese e del suo prodotto, e di conseguenza non compare la proposta per come migliorarla, dimenticando che è dall’Italia che occorre cominciare per migliorare la percezione di investitore e compratore, non da campagne di immagine (attenzione: percezione e immagine sono cose ben diverse).
Non si fa parola dell’enorme apporto che può dare al progetto di sostegno a export e investimenti esteri uno dei prodotti d’eccellenza della pubblica amministrazione: il Registro delle imprese tenuto da Infocamere. Strumento di trasparenza, di grande utilità nella percezione paese (lo stato garantisce attraverso il Registro affidato a Infocamere la veridicità di ogni informazione anagrafica ufficiale su 6 milioni di imprese, 950mila bilanci depositati, 10 milioni di operatori, con una digitalizzazione di ampiezza e qualità unica al mondo) è accantonato nel contesto del documento, nonostante alla consultazione abbiano partecipato anche le Camere di commercio che del registro sono azioniste. Non appare che si preveda di investire qualche spicciolo nel rafforzamento del budget a disposizione dei consiglieri economici e commerciali delle ambasciate, punta istituzionale della diplomazia economica ma con dotazioni di bilancio il più delle volte irrisorie se non risibili.
Ultima annotazione, il fatto che nel documento non si citi alcuna scadenza per la realizzazione delle cose che, pur se in modo generico e senza concretezza, sono elencate come necessarie. Torna la tesi di chi scrive sul fossato che separa creazione di aspettative e loro realizzazione, tanto più che nel “patto” manca addirittura l’indicazione del “prossimo passo”.
Mentre si attende che il governo vari il piano di rilancio per l’economia nel dopo virus, detto decreto semplificazioni, si sono fatte circolare sui suoi contenuti molte voci, particolarmente in materia fiscale: vanno dall’ennesimo condono edilizio (sembra abbandonato), alla diminuzione di un punto di imposta sul valore aggiunto (anche questa ora sul binario morto). Alla Camera nel pomeriggio del 1 luglio il primo ministro Conte ha definito il decreto (avanti con la retorica, svp) “la madre di tutte le riforme”, accennando anche alla riforma fiscale in gestazione (e dove?). Chissà se il presidente del Consiglio era consapevole che nelle ore precedenti era stato fatta circolare sui social, apparentemente da parte di uno dei primi italiani a varcare in auto la frontiera austriaca, la foto di una pompa di carburante scattata a Villach, sul confine austriaco in un giorno di fine giugno. Diesel a 89,9 e Super a 93,9 euro. Sui social la foto era accompagnata dall’interrogativo: “Le cose sono due: o l’Austria è uscita dall’Europa, oppure Noi siamo governati da ladri!!!”, quesito da girare al capo del governo. Non disponendo di risposta, può notarsi che siamo, secondo Global Petrol Prices, il quinto paese più caro al mondo per il pieno di carburante alla pompa. Tanto per dare al governo il suggerimento semplice che tra le semplificazioni inserisca quella del prezzo alla pompa, uno scandalo che va avanti dalla guerra d’Etiopia del 1935 (ma almeno quell’accise il fascismo l’abolì appena terminate le operazioni belliche!).
L’Unione Europea, anzi alcuni suoi stati membri definiti significativamente “frugali”, chiedono all’Italia impegni seri prima di varare il Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027 voluto dalla presidente della Commissione Von der Leyen. Difficile dar loro torto, quando si guarda al dibattito in corso da noi sull’acquisizione dei fondi Mes, Meccanismo europeo di stabilità, destinati alla ristrutturazione del sistema sanitario nei paesi membri.
Meno problemi presenta per l’Italia il varo del ”Recovery Fund”: auspicabile che possa essere erogato con volumi e modalità in linea con i bisogni creati dalla pandemia nei paesi membri, in particolare in quelli fragili come il nostro.
“Next Generation EU” proposto dalla Commissione Europea e appoggiato dalla Germania, attuale presidente di turno del Consiglio dei ministri dell’Ue, ambizioso già nel nome, è un’iniziativa dell’Ue tesa a riparare i danni di Covid-19 e sostenere le ripartenze nei paesi membri e nell’Unione.
Il Conte visto in Parlamento il 1 luglio pomeriggio ha lasciato zone di ambiguità sulla posizione italiana rispetto ai diversi strumenti, in particolare al Mes Sanità. Con ciò confermando l’impressione che dalle nostre parti il ceto di governo tema le riforme strutturali (le ultime le realizzarono i primi governi di centro sinistra mezzo secolo fa), e resti tetragono in questa lamentevole posizione anche di fronte all’opportunità di mettere mano, con prestiti ad hoc, ad una grande riforma al servizio della salute dei cittadini. C’è da augurarsi che alla fine i Cinque Stelle cedano sul pregiudizio anti Mes, capendo che solo quel denaro ci consentirà di prepararci come si deve ad una nuova pandemia (le notizie da Cina e Oms sul virus suino non sono da prendere sotto gamba) o al ritorno di SARS-CoV-2.