In questi ultimi tre anni, il presidente americano Donald Trump non ha mai perso l’occasione per mettere in risalto l’eccezionale periodo di espansione economica che gli Stati Uniti stavano attraversando fino a qualche mese fa. Inutile dire che Trump ci ha sempre tenuto ad accollarsi tutti i meriti di questa prosperità, auto-celebrandosi puntualmente come suo unico e supremo artefice.
Ci sarebbero moltissime precisazioni da fare su questo punto a cominciare dal fatto che, per quanto incontrovertibile, il benessere “Trumpiano” non è stato altro che la continuazione di quello “Obamiamo”
Sarebbe anche utile ricordare che Barack Obama ha ereditato dalla precedente amministrazione repubblicana la responsabilità economica di rialzare il naso di un aereo in picchiata.
La crisi finanziaria del 2007-09 con cui Obama ha dovuto fare i conti al momento del suo insediamento, è stata una vera e propria catastrofe e tuttavia l’ex presidente è riuscito a risollevare l’economia americana allontanandola dal baratro cui era giunta e inaugurando il più lungo periodo di espansione economica della recente storia nazionale.
La situazione che Trump ha trovato al momento del suo arrivo alla Casa Bianca invece, è paragonabile a quella di un aviatore che si siede nella cabina di pilotaggio di un aereo che già solca cieli azzurri e sereni, su una rotta stabile e che non deve far altro che attivare il pilota automatico e rilassarsi con una bibita.
Come da copione, una volta installatosi al centro di questo roseo quadretto, Trump si è immediatamente adeguato alle tradizionali strategie del Partito Repubblicano.

Nel 2017, dopo essersi lasciato alle spalle il tentativo (fallito grazie a John McCain) di privare di assistenza sanitaria circa venti milioni di persone Trump e il GOP hanno riaffondato i loro artigli sull’economia tirando fuori dal proprio arsenale ideologico l’unico strumento di politica economica di cui dispongono a prescindere dal clima prevalente: tagliare le tasse.
Il provvedimento, che, nel 2017, ha aggiunto 1.9 trilioni di dollari (trilioni!…) al deficit di bilancio americano è stato spacciato all’opinione pubblica con la solita balla inventata ai tempi di Ronald Reagan: quella “Trickle Down Economics” che sostiene che, tagliando le tasse e lasciando liquidità nelle mani delle imprese, l’industria privata tende ad aumentare gli investimenti espandendo l’attività economica, favorendo l’occupazione e compensando, con un allargamento della base fiscale, le perdite dovute all’abbassamento delle aliquote.
Sulla carta, la teoria non fa una piega. Il problema è che, in realtà, si tratta di una clamorosa stronzata come dimostrato dal puntuale fallimento di tutte le sue molteplici applicazioni pratiche e, quest’ultima versione trumpiana non ha fatto eccezione.
Attuata con la scusa della crescita economica, questo enorme regalo che i repubblicani hanno fatto ai loro padroni (le oligarchie industrial-finanziarie del paese) ha consentito alle grandi imprese di utilizzare questa pioggia di contanti per riacquistare i propri titoli azionari sui mercati finanziari favorendone un netto aumento di valore.
Questo artificiale incremento di valore azionario a sua volta, in quanto puramente speculativo e non basato su una crescita effettiva della produttività o dell’innovazione, lungi dall’aumentare investimenti e salari, si è tradotto soltanto in un monumentale aumento di capitale per le aziende, i loro azionisti e amministratori delegati.
Il prezzo dell’operazione sono i quasi due trilioni di dollari di debito scaricato sul resto del paese da quella stessa classe politica che durante l’amministrazione Obama, aveva la schiuma alla bocca per le iniezioni di capitale necessarie ad arginare la crisi economica del 2007-09 ma che non ha battuto ciglio di fronte all’esplosione del deficit creato da Trump e Mitch McConnell per assicurarsi che ricchi e straricchi del paese (incluso il nostro presidente…) ricevessero qualche milione in più.
Ovviamente, l’esplosione della pandemia che ha invertito la traiettoria economica del paese non è imputabile a nessuno in particolare. Tuttavia è interessante notare un paio di cose a proposito.
La prima è che, messi di fronte ad una crisi economico-finanziaria di proporzioni spaventose come quella che si sta delineando in questi mesi, i repubblicani hanno abbandonato senza ritegno le fandonie sulla Trickle Down Economics che per anni hanno tentato di spacciare al paese e hanno messo mano in fretta e furia a quegli stessi rimedi contro i quali inveivano come cani rabbiosi quando, alle prese con la precedente recessione, ad attuarli era Barack Obama.
La seconda cosa degna di nota è che se a novembre si dovesse assistere ad un cambio della guardia alla Casa Bianca, sarebbe la terza volta consecutiva che un presidente democratico si troverà nella poco invidiabile situazione di dover rimediare ai disastri lasciati da una precedente amministrazione repubblicana.
Il primo fu Bill Clinton che, dopo aver ereditato un sostanziale deficit finanziario da Ronald Reagan e George Bush padre, chiuse i suoi otto anni di mandato ristabilendo un bilancio in surplus.
Un surplus puntualmente distrutto da George Bush junior che, tra le spese scoperte accumulate con la guerra in Iraq, i tagli alle tasse e il disastro finanziario del 2007-09, ha lasciato ad Obama il compito di ristabilizzare la situazione.

Ma persino la crisi finanziaria del 2007-09 impallidisce di fronte alla catastrofe economica destinata ad emergere al termine di questa pandemia. Se Joe Biden dovesse uscire vincitore dalle consultazioni elettorali di fine anno, gli spetterà l’ingrato compito di affrontare un panorama economico paragonabile alla Depressione del 1929.
Senza il cavallo di battaglia di una prosperità ormai definitivamente affossata, Donald Trump e suoi complici al Congresso, sanno bene che le loro prospettive elettorali a novembre si complicano enormemente e, per questo motivo, premono per una rapida ripartenza dell’attività economica in barba alle raccomandazioni degli esperti.
Ma, Trump, il GOP e il movimento conservatore americano in generale, sanno benissimo che i pericoli per loro, vanno ben al di la delle prossime elezioni presidenziali. Come messo in luce da un recente articolo del New York Times, la destra sa perfettamente che gli epocali slittamenti tettonici attualmente in corso nell’assetto politico, sociale ed economico globale, possono sfociare in pericolosi mutamenti strutturali per gli Stati Uniti.
Il fatto ad esempio, che milioni di persone in America, in aggiunta al posto di lavoro abbiano perso anche l’assistenza sanitaria (caso unico tra i paesi sviluppati) potrebbe spingere un numero crescente di votanti a considerare finalmente, l’assurdità del sistema nel quale sono costretti a vivere e a guardare di buon occhio ignobili pretese “socialiste” come, udite udite, la mutua garantita.
La crisi potrebbe porre in una nuova prospettiva anche il problema dei quotidiani disastri ambientali perpetrati sul pianeta dall’insostenibilità ecologica dell’attuale modello di sviluppo economico.
O, più in generale, gli americani, condizionati da decenni di propaganda conservatrice a percepire lo stato e il “governo” come un “nemico” e oppressore delle libertà individuali, potrebbero iniziare a comprenderne il ruolo positivo di tutore dei diritti della collettività e di unico baluardo credibile contro il tradizionale sogno utopistico del conservativismo a stelle e strisce: quel ritorno ad una “legge della giungla” che qui in America è sinonimo di “legge del più ricco”.