In tempi in cui l’automatizzazione del lavoro continua a svilupparsi e i salari non riescono a sostenerne il tenore di vita, molti paesi hanno avviato la sperimentazione del reddito di base o Universal Basic Income (UBI), una misura che dovrebbe essere in grado di assicurare a chi si trova in età lavorativa un’integrazione economica che li porti al di sopra della soglia di povertà.
Dal primo gennaio, in Finlandia, l’agenzia governativa che si occupa del sistema previdenziale (Kela) destinerà 560 euro al mese a 2.000 disoccupati scelti in modo casuale all’interno di un gruppo di persone di età compresa tra i 25 e i 58 anni. Rispetto ai sussidi di disoccupazione tradizionali, i beneficiari continueranno ad essere pagati anche se troveranno lavoro o se smetteranno di cercarlo. La misura corrisponde al 16% dello stipendio che un dipendente di un’azienda privata guadagna mensilmente, circa 3.600 euro. In questo modo, la Finlandia spera di ridurre la disoccupazione e sostituire molti degli schemi di sussidi preesistenti, ormai per molti aspetti obsoleti. Si vuole anche verificare se i beneficiari del programma useranno il denaro ricevuto per investire nell’istruzione, nella formazione, o per cercare un lavoro più adatto alle loro competenze. I risultati dei test dovrebbero porre le basi per riflettere sulla possibilità di organizzare sistemi di welfare molto più semplici e consoni alle trasformazioni che l’economia mondiale e il mercato del lavoro stanno subendo.
Non solo in Finlandia
Tuttavia il reddito minimo universale non è un concetto nuovo. Risale a Thomas Paine (1737-1809), uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, il quale sosteneva che tutti hanno il diritto di condividere un contesto di prosperità generale. E la Finlandia non è il primo paese ad adottare un sistema di reddito universale e incondizionato. Ci hanno già provato la Namibia (con risultati positivi sul tasso di criminalità calato del 42% e sul tasso dei ricoveri in ospedale) l’India e il Brasile. Mentre Regno Unito, Scozia e Francia stanno valutando se introdurre il medesimo sistema con l’obiettivo di risolvere il problema della continua perdita di lavoro.
A giugno 2016, la Svizzera ha bocciato la proposta di un reddito di base per tutti. Solo il 23% dei votanti ha approvato il progetto che prevedeva contributi mensili, dalla nascita alla morte, di 2.500 franchi elvetici (circa 2.250 euro) per gli adulti, e di 625 franchi (560 euro) per i minorenni, in sostituzione dei vari strumenti di welfare attualmente attivi.
Pro e contro
La questione ha messo a confronto coloro che credono sia uno spreco garantire un minimo di reddito a tutti e chi al contrario pensa sia il modo più efficace per combattere la crescente disuguaglianza, la stagnazione dei salari e la tecnologia che sta avanzando in modo esponenziale.
In particolare, secondo i suoi oppositori, il reddito minimo andrebbe ad incrementare la schiera dei nullafacenti che sarebbero così demotivati a trovare un lavoro o ad investire il tempo libero in modo produttivo. Molti finlandesi temono addirittura che l’introduzione del reddito garantito possa aumentare il numero di immigrati, attratti dall’idea di ricevere denaro in modo gratuito. Un timore questo che appare eccessivo, soprattutto se ci si ferma a riflettere sul fatto che 560 euro al mese non bastano per garantire la sopravvivenza di un disoccupato. I sostenitori del reddito di base pensano invece che remunerando stabilmente un individuo, e non saltuariamente come avviene oggi in condizioni precarie, si favorisca la produttività e di conseguenza la creazione dei profitti.
Ed è questo l’obiettivo di YCombinator, uno degli incubatori più famosi della Silicon Valley, che ha deciso di finanziare il reddito di base ad un gruppo di persone per cinque anni assumendo un ricercatore per vedere come va a finire. Sulle pagine di The Guardian, il sociologo ed esperto di tecnologia Evegny Morovoz, autore del libro Silicon Valley: i signori del silicio, ha definito l’iniziativa come il cavallo di troia dell’élite tecnologica statunitense per scrollarsi di dosso le accuse di contribuire ad aggravare le disparità di reddito.
In Italia
E in Italia? Anche nel Bel Paese si discute da tempo di reddito minimo. A fornire un valido contributo al dibattito, ci ha pensato Luca Ricolfi sulle pagine de Il Sole 24 ore. L’autorevole sociologo italiano ha parlato di “Reddito-Arlecchino”: una sorta di reddito minimo per pochi che del reddito minimo ha tutti gli obblighi tipici, ma non viene concesso a tutti coloro che si trovano al di sotto della soglia di povertà. “È infatti il governo nazionale che decide quali famiglie sono degne dell’aiuto e quali no, mentre ai governi locali (regioni e comuni) si lascia la libertà di intervenire con ulteriori sussidi, a loro volta soggetti a ulteriori regole, vincoli, adempimenti che ogni amministrazione regionale o comunale è libera di introdurre per proprio conto”, si legge nell’articolo firmato da Ricolfi. Mentre per l’economista Andrea Fumagalli, l’introduzione del reddito di base in Italia si scontrerà con il muro del mondo imprenditoriale che teme gli eventuali nuovi margini di libertà goduti dai lavoratori.
Negli USA
Assegnare un reddito di cittadinanza non sarebbe comunque semplice. Il World Economic Forum (WEF) ha pubblicato un intervento di Scott Santens, il fondatore dell’Economic Security Project (ESP), una coalizione di oltre 100 esperti in tecnologia, investitori e attivisti, che stanzierà dieci milioni di dollari nel corso dei prossimi due anni per capire come un reddito universale di base potrebbe garantire opportunità economiche a tutti gli americani negli Stati Uniti. Un paese in cui, secondo una ricerca condotta da Gallup, il 70% dei lavoratori non è soddisfatto del proprio lavoro, con conseguenze negative su produttività e coesione sociale. A dimostrazione di tale malcontento, i recenti movimenti americani per l’aumento del salario minimo per alcune categorie di lavoratori.
Ma qual è il costo per la società? “I costi delle persone che non hanno reddito sufficiente gravano enormemente sull’intera economia − scrive Santens nel suo articolo − Il costo complessivo della povertà negli USA eccede i mille miliardi di dollari, quindi, le poche centinaia di miliardi di dollari in più per l’UBI si ripagherebbero da sole”. Santens crede che chi riceverà il reddito minimo non smetterà di lavorare. Il reddito di base dovrebbe infatti essere sufficiente a garantire i bisogni primari e a dare alle persone il tempo per svolgere altre attività, più complesse e interessanti.
L’UBI consentirebbe quindi non solo di abbattere le disuguaglianze, ma sarebbe, secondo l’attivista americano, “una promessa di pari opportunità, una nuova linea di partenza per tutti al di sopra della soglia di povertà”.
“Quanti posti di lavoro diventerebbero più attraenti se venissero pagati di più? − continua Santens − Quanta prosperità in più si potrebbe creare? Il risultato di questo nuovo scenario sarebbe un mercato del lavoro completamente trasformato, con lavoratori più motivati, meglio pagati, più produttivi”. E non solo negli Stati Uniti.