L’Italia è l’unico paese in Europa, insieme alla Grecia, a non aver ancora introdotto una misura organica e universale di contrasto della povertà. Soprattutto alla luce della comparsa dei “nuovi poveri”, lavoratori anche diplomati o laureati che con la crisi hanno subito un netto peggioramento della condizione economica. Oggi nel Bel Paese, sono ben 4,6 milioni, pari al 7,6% del totale della popolazione, le persone in stato di povertà assoluta, ossia l’indigenza vera e propria, dovuta alla mancanza di risorse economiche necessarie per acquistare quel paniere di beni e servizi che, nel contesto italiano, vengono considerati essenziali per una determinata famiglia per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile. È la fotografia dell’ISTAT sulle Condizioni di vita e reddito che restituisce un’Italia con le disuguaglianze di reddito più ampie d’Europa e sempre più lontana dagli obiettivi fissati dalla Strategia Europea 2020 in base ai quali il nostro Paese nei prossimi quattro anni dovrebbe ridurre gli individui a rischio sotto la soglia dei 12,8 milioni.
Sono dati impietosi che rivelano che il 28,9% degli italiani, più di uno su quattro, rischia l’esclusione sociale perché non è in grado di affrontare imprevisti, di riscaldare casa, di fare un pasto adeguato una volta ogni due giorni, di andare in vacanza almeno una settimana all’anno ed è in ritardo con mutuo e bollette. Non solo, si consolida il fenomeno della povertà nonostante il lavoro, specie su base famigliare. E se il 20% più ricco delle famiglie italiane percepisce il 40% dei redditi totali, il 20% più povero ne percepisce il 6,7%. E sono i giovani e le popolazioni del Sud ad avere la peggio.
Solo venerdì scorso il CenSIS, Centro Studi Investimenti Sociali, raccontava il ko economico dei millennials. Per la prima volta nella storia dell’Italia i giovani sotto i 35 anni saranno più poveri dei loro padri, dei loro nonni e anche dei loro coetanei di 25 anni fa. Una generazione imprigionata tra “l’area delle professioni non qualificate” e “il mercato dei lavoretti”. Mentre la ricchezza degli anziani è cresciuta addirittura dell’84,7% rispetto al 1991. “La società italiana continua a funzionare nel quotidiano, a cicatrizzare le ferite, come la Brexit e gli eventi sismici degli ultimi mesi – si legge nel rapporto – ma si fa sempre più grande il divario tra corpo sociale, che si sente rancorosamente vittima di un sistema di casta, e potere politico, che ha rinunciato a farsi partecipe dei bisogni della società e pensa solo a se stesso”. Insomma un paese rentier, immobile, dove le istituzioni, che dovrebbero fare da cerniera tra i due poli, sono in una profondissima crisi perché vuote e occupate da altri poteri.
A metterci il carico da novanta c’è stato anche lo SvIMez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, che solo un mese fa ha ricordato che nel Sud Italia il 60% degli individui in famiglie giovani è a rischio povertà. Mentre 10 meridionali su 100 risultano in condizioni di povertà. E tanti – soprattutto donne e laureati – emigrano.
Ma cosa sta facendo la politica per ridurre le disuguaglianze? L’Italia spende meno che nel resto d’Europa per la protezione sociale dei gruppi di popolazione deboli. Il Governo Renzi ha introdotto nella scorsa Legge di Stabilità uno specifico fondo nazionale anti povertà che ha stanziato un miliardo nel 2017 e ne prevede 1,5 miliardi a partire dal 2018. In più ci sono 500 milioni all’anno già esistenti per ASDI, l’assegno di disoccupazione, Social Card e Fondo contro la povertà educativa minorile. Tuttavia il DDL povertà, approvato dalla Camera il 14 luglio 2016 e in corso di esame in commissione Lavoro al Senato, rischia di rimanere al palo con le dimissioni del presidente del Consiglio e l’incognita sulla prosecuzione della legislatura.
La stessa sorte potrebbe toccare al Reddito di inclusione sociale, il ReI. Il disegno di legge per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà è stato presentato a febbraio 2016 dopo anni di insistenze da parte del cartello di associazioni riunite nell’Alleanza contro la povertà. Seicento milioni di euro per il primo anno ed 1 miliardo per il secondo (2017), questa la cifra messa a disposizione per rispondere alle difficoltà economiche di chi è povero o a rischio povertà. Non è assistenzialismo, assicurano i fautori del ReI. Perché, se da una parte ci sarà un contributo economico, dall’altra i beneficiari dovranno rendersi disponibili a un progetto su misura con obiettivi di formazione professionale e di impiego e rispettare alcuni doveri (come mandare i figli a scuola). L’obiettivo è quello di costruire percorsi di uscita dalla marginalità. Tuttavia non sono pochi coloro che considerano “l’obbligo ad accettare qualsiasi lavoro pena la perdita del beneficio” una clausola inadeguata ad affrontare la condizione di milioni di persone. Il timore più diffuso è che i beneficiari del sostegno siano spediti a svolgere lavori necessari che il Comune non riesce più a garantire.
Il timore è che i provvedimenti previsti dal Piano nazionale di contrasto alla povertà non siano sufficienti a sanare le ingiustizie e le risorse messe in campo sono ancora limitate, soprattutto se confrontate con quelle che la Banca centrale europea ogni mese mette a disposizione delle banche, attraverso il quantitative easing (ben 80 miliardi di euro), meccanismo che da più parti viene accusato di aumentare le disuguaglianze. Disuguaglianze che rischiano di accendere guerre tra poveri che sfociano in episodi come quello di San Basilio: mercoledì 7 dicembre nel quartiere alla periferia est della Capitale, 30 inquilini si sono opposti all’assegnazione di una casa popolare ad una famiglia marocchina, tre bimbi al seguito, 1, 4 e 7 anni, che sta in Italia da cinque anni, al grido “qui negri non li vogliamo, tornate a casa col gommone”.