Questo articolo è ripreso da lavoce.info
Il gioco delle parti tra Fed e mercati
La Federal Reserve torna ad alzare i tassi dopo dieci anni. Una decisione storica, anche se totalmente anticipata. È forte l’impressione che la banca centrale americana abbia scelto di mettere fine all’epoca dei tassi zero per una, fondamentale, ragione: liberare i mercati dall’incertezza.
Un’incertezza di fatto generata dalla Fed stessa. Da tempo i mercati chiedevano alla Fed di illuminarli sul reale stato dell’economia, leggendo nella “politica di tassi zero” un segnale del fatto che le condizioni economiche non fossero migliorate. Se dunque oggi la Fed alza i tassi – pensano i mercati – questo vuol dire che lo stato dell’economia sta migliorando in modo convincente.
Un vero gioco delle parti. I mercati chiedono alla Fed di convincerli che le cose procedono bene (sia a casa che nel mondo). La Fed, a sua volta, tortura i dati che provengono dai mercati per farsi dire che i rischi di una ripresa dell’inflazione stanno per materializzarsi. Cerca disperatamente, in questi dati, una “curva di Phillips”: una disoccupazione così bassa (oramai al 5 per cento) dovrebbe produrre una competizione sempre più forte tra le imprese per aggiudicarsi gli ultimi lavoratori disponibili, spingendo i salari, e quindi i costi e i prezzi, verso l’alto.
Condurre la politica monetaria è simile a guidare una macchina lungo una strada piena di curve. Un buon pilota cercherà sempre di anticipare, scalando le marce ben prima di imboccare la curva. L’argomento da libro di testo, utilizzato anche da Janet Yellen, è che il rialzo dei tassi agisce sull’economia, e quindi sull’inflazione, con grande ritardo (la previsione mediana è di circa nove mesi), perciò è necessario agire preventivamente.
Eppure, per quanto il tasso di disoccupazione sia vicino al suo valore, non c’è traccia di ripresa dell’inflazione. Soprattutto, non c’è traccia di ripresa nelle aspettative di inflazione. Se una banca centrale crede veramente nella curva di Phillips (come Yellen sembra tenacemente fare), deve anche credere che siano le aspettative di inflazione a determinare l’inflazione corrente. Il grafico qui sotto ne mostra una misura ricavata dai mercati finanziari: la differenza fra il rendimento di un normale titolo a cinque anni e il suo corrispondente “indicizzato all’inflazione”. La differenza è proprio la compensazione che gli investitori richiedono per essere “protetti” dal rischio futuro di inflazione. Dal gennaio 2013 in poi le aspettative a cinque anni sono in costante discesa, e sono oggi intorno all’1,2 per cento, ben lontane dal target del 2 per cento della Fed.
Il problema è che l’inflazione non sembra riflettere le (presunte) pressioni provenienti dal mercato del lavoro. È questa, oramai da tempo, la fonte principale di confusione ed esitazione della Fed. Oggi, quindi, è come se la Federal Reserve avesse deciso di rallentare prima di una curva, nonostante la mappa geografica indichi che la strada continua con un rettilineo.
Stabilità finanziaria tra gli obiettivi della banca centrale?
La realtà è che mentre gli argomenti a favore di una permanenza a tassi zero sembrano chiari, quelli per intraprendere un sentiero di rialzo lo sono molto meno. Ne vengono in mente (forse) due.
Primo, l’esigenza politica di Yellen di concedere finalmente qualcosa ai falchi del board della Fed, che da tempo spingono per un cambio di direzione. Yellen ha finora deluso le aspettative di chi la considerava abile nel costruire il consenso, prova in cui si era invece rivelato maestro il suo predecessore Ben Bernanke.
Secondo, i timori per presunti rischi di stabilità finanziaria indotti da una permanenza eccessiva dei tassi a zero. Questo argomento riecheggia da tempo, ma rimane senza alcuna robustezza scientifica. Il timore è che tassi zero diventino la nuova normalità dei mercati finanziari, incoraggiando strutturalmente l’appetito verso il rischio.
Se fosse questa la ragione principale dietro la decisione della Fed, saremmo all’alba di un nuovo regime di politica monetaria, in cui la “stabilità finanziaria” entra, seppur implicitamente, nella funzione obiettivo della banca centrale. In questo modo acuendo, e non diradando, il quadro di incertezza. Primo, perché l’argomento stabilità finanziaria è molto diverso dall’argomento “ripresa dell’inflazione via curva di Phillips”: quale visione del mondo avrebbe, quindi, la Fed? Secondo, perché l’argomento stabilità finanziaria è stato recentemente utilizzato al contrario, per giustificare il “non-rialzo” dei tassi a ottobre, per timori legati all’esposizione debitoria in dollari delle imprese nei paesi in via di sviluppo.
Utilizzare la “stabilità finanziaria” a ottobre per giustificare tassi zero e a dicembre per giustificare un rialzo dice tutto sull’incertezza che ancora regna intorno alla politica monetaria della banca centrale più importante del mondo.
* Tommaso Monacelli è professore ordinario di Economia all'Università Bocconi di Milano, e Fellow di IGIER Bocconi e del CEPR di Londra. Ha ottenuto il Ph.D. in Economia presso la New York University, ed è stato in precedenza assistant professor a Boston College e professore associato all'Università Bocconi. E' associate editor di riviste scientifiche internazionali, tra cui il Journal of the European Economic Association, il Journal of Money Credit and Banking, e la European Economic Review. E' stato adjunct professor presso la Columbia University, visiting professor presso la Central European University, e research consultant per Bce, Ocse, IMF, e Riksbank. I suoi interessi di ricerca riguardano la teoria e politica monetaria e la macroeconoma internazionale.