Come il nostro giornale aveva previsto, il Consiglio dei ministri ha impugnato la legge di riforma degli appalti approvata dal Parlamento siciliano nel luglio scorso. Una clamorosa smentita per l’assessore regionale alle Infrastrutture, Giovanni Pizzo, che appena qualche giorno fa, di ritorno da un incontro rimano, aveva detto che la legge siciliana sugli appalti non sarebbe stata impugnata dal governo nazionale. Invece è avvenuto l’esatto contrario.
Secondo il governo di Matteo Renzi, la riforma approvata dal Parlamento del’Isola violerebbe il secondo comma dell'articolo 117 della Costituzione, che riserva esclusivamente alla competenza legislativa dello Stato la materia della tutela della concorrenza”.
Ovviamente, quello del governo nazionale è un parere, non la verità. Perché sulla vicenda l’ultima parola la dovrebbe pronunciare la Corte Costituzionale. Non utilizziamo a caso il condizionale, perché dalla politica siciliana c’è da aspettarsi di tutto. Davanti a un’impugnativa, di solito, il presidente della Regione dovrebbe presentare ricorso presso la Corte Costituzionale. Ma in Sicilia, ormai da anni, ha preso piede un modo di affrontare le impugnative, come dire?, ‘innovativo’. In pratica, il governo regionale si ritira, di fatto in contraddizione con la volontà del Parlamento, e dà vinta la partita, senza giocarla, allo Stato centrale. Ieri questo avveniva di fronte alle impugnative del commissario dello Stato per la Regione siciliana; oggi questo potrebbe avvenire di fronte all’impugnativa del governo Renzi (per la cronaca, l’ufficio del commissario dello Stato, organo che fa capo al Ministero degli Interni – e quindi sempre al governo nazionale – è stato, di fatto, abolito).
Perché ipotizziamo che il presidente della Regione, Rosario Crocetta, non proponga ricorso davanti alla Corte Costituzionale? Perché la partita che si gioca su questa delicata materia è grossissima. Di fatto, la legge approvata dal Parlamento siciliano (come potete leggere qui) taglia le gambe, contemporaneamente, ai grandi gruppi imprenditoriali nazionali che in Sicilia fanno il bello e il cattivo tempo; alla mafia; e agli accordi tra gli stessi grandi gruppi nazionali e la mafia che in Sicilia e, in generale, in tutto il Sud Italia vanno in scena, ininterrottamente, dagli anni della Cassa per il Mezzogiorno (cioè dagli anni ’50 del secolo passato). Insomma, con questa legge, giocando un po’ con un’iperbole, il governo e il Parlamento della Sicilia ‘rischiavano’ di fare per davvero la lotta alla mafia…
Tutto questo succede perché, dalla fine degli anni ’50 non esiste più l’Alta Corte per la Sicilia. L’Isola, com’è noto, ha conquistato l’Autonomia subito dopo la seconda guerra mondiale grazie al movimento separatista, che mise la nascente Repubblica italiana davanti a un bivio: o Autonomia, o separazione dall’Italia.
Per dirimere le controversie tra il Parlamento siciliano e il Parlamento nazionale era stata creata l’Alta Corte per la Sicilia, un consesso di giuristi siciliani e italiani che si pronunciava sulla costituzionalità delle leggi italiane rispetto allo Statuto autonomistico siciliano; e sulla costituzionalità delle leggi siciliane rispetto alla Costituzione italiana. L’Alta Corte funzionò per circa dieci anni (per la Sicilia ne faceva parte, tra gli altri, don Luigi Sturzo, il fondatore del Cattolicesimo sociale).
Nel 1957 quando si insediò la Corte Costituzionale (la cui nascita è successiva allo Statuto siciliano, che risale al 1947, e alla Costituzione italiana, che risale al 1948) lo Stato decise, unilateralmente, bloccare (ma non abolire) l’Alta Corte per la Sicilia. E lo fece la stessa Corte Costituzionale con una sentenza che molti esponenti politici siciliani di quegli anni, come Giuseppe Alessi, primo presidente della Regione siciliana, e Giuseppe Montalbano (peraltro eminenti giuristi: il primo tra i più noti penalisti italiani, il secondo docente alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo), criticarono aspramente.
L’Alta Corte non è stata abolita (non è mai stata approvata una legge costituzionale per abolirla), ma “sepolta viva”, come ebbe a dire Alessi. Il blocco dell’Alta Corte ha vulnerato l’Autonomia siciliana, che è stata via via svuotata, sia dai pronunciamenti della Corte Costituzionale, sia dal centralismo romano, sia dall’ascarismo delle classi politiche siciliane (per ‘ascari’ s’intende i politici siciliani che svendono gli interessi della Sicilia a Roma).
L’impugnativa della legge sugli appalti approvata dal Parlamento siciliano è l’ennesima dimostrazione di come l’Autonomia siciliana venga vulnerata dallo Stato. Con Roma che, in questo caso, utilizza un potete improprio per tutelare interessi forti.
Che dire, ancora? Che chi scrive non esclude che, tra qualche girno, il governo nazionale impugni anche la legge sull'acqua pubblica.
Sulla vicenda intervengono i deputati del Parlamento siciliano del Movimento 5 Stelle. “L'ennesimo sfregio del governo Renzi alla Sicilia, Crocetta ora si muova per correre ai ripari”, si legge in un comunicato diffuso dai grillini.
Chi entra nel merito dell'iniziativa del governo nazionale è il parlamentare Sergio Tancredi, primo firmatario della legge: “La lettura delle motivazioni, che non entrano nel merito degli approfondimenti giuridici prodotti a supporto della legge 14 e chiesti da palazzo Chigi – afferma Tancredi – mi fanno pensare che le motivazioni siano esclusivamente politiche, perché si vuole evitare che la Sicilia riaffermi il proprio diritto a legiferare, anche nelle materie concorrenti, peculiarità dataci dal nostro Statuto, che da più parti ultimamente viene attaccato. Questo è l'ultimo di una serie di sfregi del governo Renzi alla Sicilia e all'economia siciliana. Mi aspetto che Crocetta difenda la legge chiedendo alla Corte costituzionale di pronunciarsi in merito e sono convinto che alla fine la Corte ci darà ragione, anche perché se non lo facesse, alla luce delle precedenti sentenze, smentirebbe se stessa”.
“Quella sugli appalti è una riforma fondamentale per il settore – continua Tancredi – e la recente manifestazione degli imprenditori, che sono arrivati perfino ad incatenarsi per difendere la legge ne è prova lampante. Lo stop farebbe ripiombare nella disperazione tutti gli operatori dell'edilizia, vanificando la possibilità di rilancio del comparto. Da rimarcare – conclude il deputato grillino – che con la nuova legge i partecipanti alle gare sono aumentati sensibilmente, confermando che l’auspicio di un incremento di competitività era corretto e che si tratta di una norma che stimola la libera concorrenza, ampliando la platea dei soggetti che possono aspirare all’aggiudicazione”.
Conferma le conseguenze negative dell'eventuale stop l'assessore ai Lavori pubblici di Ragusa, Salvo Corallo: “Molte aziende avevano ritrovato lo stimolo a partecipare alle gare. Solo nel nostro Comune alcuni grossi lavori ora potrebbero fermarsi. La riforma garantiva, oltretutto, la qualità dei lavori, in quanto non costringeva gli imprenditori a ricorrere a risparmi sui materiali per ottenere i maggiori ribassi”.