Nei giorni scorsi si è avuta l’ennesima prova che, negli ultimi decenni, chi ha deciso qualcosa di importante, non lo ha fatto per il bene dei cittadini e, come se non bastasse, lo ha fatto “sbagliando”. Errori le cui conseguenze hanno causato danni spaventosi, ovvero povertà e miseria. A convincere chi ancora avesse dei dubbi, è stata la pubblicazione del Rapporto World Economic Outlook, elaborato dai “tecnici” del Fondo monetario internazionale (Fmi). Un rapporto i cui contenuti sono sconvolgenti.
Per comprendere interamente il problema, e le sue conseguenze, è necessario tornare indietro nel tempo.0 Per anni, politici, finti tecnici e passacarte presentati come esperti hanno continuato a ripetere che il passaggio dalle singole monete nazionali all’euro sarebbe stato un vero toccasana per l’economia del vecchio Continente e che chi non avesse partecipato, se ne sarebbe pentito amaramente. Poi, quando negare l’evidenza era ormai impossibile ed era chiaro a tutti (anche ai non cultori della materia) che l’euro è un fallimento, sia dal punto di vista economico-finanziario, sia dal punto di vista politico (non si crea un popolo dopo aver creato una moneta, anzi, semmai, si fa l’esatto contrario), hanno cominciato a far capolino, sui media, le affermazioni di quanti, allora al potere (come Giuliano Amato riferendo l’opinione di esimi economisti americani), avevano previsto che con la moneta unica si sarebbe andati incontro a gravi rischi e che i danni avrebbero potuto essere maggiori dei benefici.
Lo stesso è avvenuto con il famoso limite del 3 per cento del rapporto deficit/Pil. Per anni, questo vincolo è stato considerato “invalicabile” e basato su teorie economiche certe. Per decenni l’obbligo di rispettare questa norma ha condizionato le economie di quasi tutti i Paesi dell’Unione europea. E sempre facendo riferimento a questa “regola”, la Triade, costituita da Commissione europea, Banca centrale europea (Bce) e il già citato Fmi, ha imposto limiti impossibili da rispettare e costretto chi sforava a pagare a peso d’oro. Non in senso metaforico, ma reale: in base ad accordi capestro, come il Fiscal Compact, chi sfora questo “limite insormontabile” deve pagare mettendo a serio rischio le proprie riserve auree.
Solo di recente si è scoperto che l’origine “tecnica” del 3 per cento è nata, negli anni '80 del secolo passato, da un’idea di Guy Abeille, allora sconosciuto funzionario del governo di François Mitterand. Fu lui a proporre di limitare il rapporto deficit /Pil al 3 per cento. Il tutto, è stato lui stesso ad ammetterlo, senza alcuna base scientifica: “Prendemmo in considerazione i 100 miliardi del deficit pubblico di allora. Corrispondevano al 2,6 per cento del Pil. Ci siamo detti: un 1 per cento di deficit sarebbe troppo difficile e irraggiungibile. Il 2 per cento metterebbe il governo sotto troppa pressione. Siamo così arrivati al 3 per cento. Nasceva dalle circostanze, senza un'analisi teorica”. Una scientificità inesistente confermata anche da Hans Tietmeyer, ex presidente della Bundesbank: “Economicamente è difficile da giustificare”. Peccato che la decisione dei tecnocrati di Bruxelles di utilizzare l’ormai (tristemente) famoso 3 per cento abbia avuto conseguenze devastanti sulle economie di molti dei Paesi dell’Unione europea.
Nei giorni scorsi è stata la volta del Fondo monetario internazionale ad ammettere i propri errori. Lo ha fatto con il World Economic Outlook: un’analisi della situazione del mondo del lavoro e delle imprese a livello globale elaborata dai “tecnici”. Tecnici che nel rapporto affermano che “il livello di regolamentazione del mercato del lavoro non ha evidenziato correlazioni statisticamente significative con la produttività complessiva”. In altre parole, non esisterebbe un nesso logico o statistico tra la deregolamentazione di assunzioni e licenziamenti e la crescita dell'economia.
Il problema è che da anni, ormai, molti Paesi, e tra questi l’Italia, nella speranza di far crescere la produttività, hanno rivoluzionato il mercato del lavoro basando le proprie decisioni proprio sulla scorta delle indicazioni degli “esperti” del Fondo monetario internazionale. “Teorie” confermate anche da esperti internazionali come Jean Claude Trichet e Mario Draghi che, nel 2011, dissero che era necessario liberalizzare il mercato del lavoro e, in particolare, “una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti”.
Sono stati tanti i Paesi che hanno seguito le direttive del Fondo monetario internazionale, di Draghi e di altri: in Italia, ad esempio, queste misure sono state inserite nel Jobs Act dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che ha anche promesso che questa decisione “porterà crescita e occupazione”. Lo stesso ha fatto un altro esperto, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ha confermato questa tesi e ha preannunciato che l’intervento del governo rappresenta “un successo storico”.
Rinunce sindacali (si pensi a ciò che è avvenuto con i contratti dei metalmeccanici alla Fiat), lotte per inserire questo o quell’articolo nelle leggi nazionali (chi non ricorda il famoso art. 18) e leggi che hanno riportato il mondo del lavoro indietro di mezzo secolo. Tutto fatto basandosi sulle “indicazioni” degli “esperti”. E in modo particolare degli esperti del Fondo monetario internazionale…
Lo stesso che, nei giorni scorsi, ha ammesso il proprio errore: a rallentare la crescita non sono le regole del lavoro. Ad essere importanti, sarebbero (il condizionale è d’obbligo a questo punto) altri “fattori”: l’invecchiamento della popolazione, la debolezza degli investimenti e il basso incremento della produttività. Insomma, la liberalizzazione del mercato del lavoro non c’entra niente e non produrrà alcun risultato.
Il problema è che, ancora una volta, le (errate) previsioni degli esperti sono arrivate tardi: basti pensare alle conseguenze sul mondo del lavoro che avrà il tanto osannato (ma solo da chi lo ha proposto e imposto) Jobs Act. Dopo mesi e mesi di polemiche, promesse da parte del governo (che, però, avendo i propri “esperti” avrebbe dovuto capire che stava andando nella direzione sbagliata), ci si è accorti che le rinunce dei lavoratori non serviranno a salvare l’Italia. Non serviranno a far aumentare l’occupazione, non serviranno a migliorare l’economia del Belpaese (e degli altri che hanno seguito le direttive sbagliate del Fondo monetario internazionale), non serviranno a far crescere l’imprenditoria.
Restano due amare considerazioni. La prima è quanto mai scontata: chi beneficia di questi “errori”? Chi è avvantaggiato da “errori” come l’euro, il famoso “3 per cento” o le “analisi del mondo del lavoro” del Fondo monetario internazionale? La risposta è semplice: a beneficiare di questi “errori” sono sempre gli stessi. Nei primi di due casi, le banche. La Bce e le banche nazionali, prima di tutte, e le altre, subito dopo. Del resto (non lo si ripeterà mai troppe volte), si tratta sempre di banche “private”: Bce, Bankitalia e tutte le altre banche nazionali sono imprese private (anche quando, come nel caso di Bankitalia o della BCE, il loro nome potrebbe far pensare che si tratta di istituzioni pubbliche). E il loro fine ultimo non è “fare del bene” o curare gli interessi dei cittadini. Queste aziende lavorano per curare “altri interessi”: quelli degli azionisti, che sono a loro volta banche (di proprietà di soggetti privati).
Quanto al terzo errore, quello del Fondo monetario internazionale, a beneficiarne saranno principalmente le grandi imprese e le multinazionali: per le piccole e medie imprese, per le imprese artigiane, per i piccoli commercianti non serviranno a niente le misure osannate dai governi (per loro, la crisi c’era e continuerà ad esserci). E questa non è teoria: è già stato “dimostrato”. Nell’ultimo anno, secondo i dati dell’Inps, la disoccupazione è cresciuta (i nuovi occupati in Italia sono stati solo 13). In compenso, grazie all’errore del Fondo monetario internazionale e alle leggi create basandosi sulle indicazioni dei tecnici della Lagarde, le grandi aziende hanno potuto “gestire” meglio, molto meglio il proprio “capitale umano”.
C’è, infine, un’altra domanda che sorge spontanea dopo tutti questi “errori”. Quando un professionista o un lavoratore “sbaglia”, quasi sempre sono costretti a pagare per i danni causati. E nel caso dell’euro? O del famoso 3 per cento? O, ultimo ma non ultimo, nel caso della valutazione del Fondo monetario internazionale? Chi pagherà per gli “errori” commessi da questi soggetti?
Ammesso, ovviamente, che si tratti di “errori” …
Foto tratta da giornalesm.com