Il capitalismo ha vinto la guerra fredda raccontando una favola a cui in tanti hanno creduto perché era comodo e conveniente farlo. La favola era che un sistema economico e sociale può arricchire oscenamente una piccola plutocrazia e allo stesso tempo migliorare le condizioni di esistenza di tutti gli altri. Per finanziare la favola e renderla attendibile il capitalismo ha dissipato risorse naturali accumulate in milioni di anni e un patrimonio etico e di civiltà costruito in millenni. Ora è restato poco o nulla da consumare e la favola si è rivelata una menzogna. Ma il capitalismo non ha più bisogno di raccontarla: il suo scopo lo ha raggiunto: non ha più avversari che minaccino la sua supremazia.
Per inerzia o disperazione molti continuano ad aggrapparsi a quella bugia come i bambini al mito di babbo Natale. Per illudersi di essere felici identificano la qualità della vita con il consumismo e per dimenticare la loro frustrazione si immergono nei mondi fittizi e ripetitivi dei videogame, dello sport, della pornografia. Ma non sono compensazioni di lunga durata: alla fine se ne accorgono anche loro che si sta peggio di prima; per la prima volta in generazioni i genitori si aspettano che i propri figli avranno meno di loro.
La nuova favola del neocapitalismo liberista è che ciò sia inevitabile e addirittura giusto. Che sia nell’ordine delle cose. Che la crisi economica e soprattutto civile sia la normalità: abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi e ora si deve rientrare nella realtà. Non parlano di loro stessi, naturalmente, bensì della gente normale, la classe media, i lavoratori: quelli che non sfondano e dunque non possono più ambire al benessere.
Non bisogna cascarci e finire col credere anche a questa seconda menzogna, dopo avere creduto alla prima. Al contrario, bisogna smascherarla e far prendere coscienza anche a chi si sta rassegnando. Un futuro di paura e di miseria materiale e culturale non è il nostro destino: è una condizione possibile ma non necessaria. Dipenderà da noi, dalla scelta fondamentale che faremo. Che dobbiamo fare, ora.
La prosperità come diritto o concessione, ottenuta per qualche decennio da vari popoli, italiani inclusi, in cambio della passività, non tornerà. Non possiamo più vivere tutti di rendita e non possiamo aspettarci che le nostre esigenze vengano soddisfatte, neppure quelle elementari. Quella è stata la prima favola del capitalismo: l’inesauribilità delle risorse e l’inarrestabilità della crescita economica. Invece la sua nuova favola spiega che chi ha successo merita tutto e chi perde è un fallito e non merita nulla. Spiega che i beni a disposizione sono limitati: non abbastanza, per esempio, per organizzare delle costosissime Olimpiadi e tenere in piedi il servizio sanitario nazionale, per comprare gli F35 e sanare la scuola pubblica, per continuare a mantenere nel lusso la casta politica e imprenditoriale e per creare occupazione. Cosa scelgono i ricchi è evidente: l’ineguaglianza non è mai stata così alta e mai nella storia ci sono stati singoli individui o corporation con tanto denaro e tanto potere a livello planetario. È questo che vogliamo?
Che ci vada o no, ci tocca scegliere. Se le risorse del pianeta e specificamente del nostro paese saranno amministrate responsabilmente e distribuite in maniera equa (che non significa identica) ce ne sarà per tutti. Un benessere diffuso, senza livellamenti e senza grosse disparità. Avere più o meno quello che avevamo non è un’utopia: solo che non lo avremo senza lottare. Se invece si lascerà fare ai liberisti e ci si adeguerà ai loro miti (individualismo e culto delle celebrity, deregulation e libero mercato, globalizzazione e meritocrazia) ce ne sarà solo per i vincenti.
E se non si farà nulla? Per default la situazione precipiterà verso la barbarie, verso la legge della giungla e del più forte, come sta già accadendo. La civiltà, la giustizia e la libertà non sono pratiche istintive, naturali: servono coraggio, organizzazione e fatica per conquistarle, e una volta conquistate vanno difese, ogni giorno, con intransigenza.