Il mantra secondo il quale il TTIP acronimo di Transatlantic Trade and Investment Partnership rappresenta l’unico modo per affrontare la concorrenza delle economie emergenti e contribuire alla ripresa dell’economia americana ed europea, non sembra funzionare molto. Lo scopo dell’accordo è quello di unire Europa, Canada e Stati Uniti in un unico mercato con la convinzione che la riduzione o l’eliminazione delle tariffe doganali e la soppressione di norme e lungaggini amministrative, che di fatto impediscono ad un prodotto autorizzato in Europa di essere venduto anche negli USA e viceversa, porterebbe benefici ad entrambe le economie. Gli studi ufficiali parlano di ricadute positive per 120 miliardi di euro (pari a 545 euro per una famiglia media) per l’Unione Europea, mentre la valutazione per gli USA sarebbe di 95 miliardi di euro l’anno, pari a 655 euro per famiglia.
Eppure le trattative avviate ufficialmente nel 2013 e che dovrebbero concludersi prima delle elezioni presidenziali, sembrano poco trasparenti. Un modo di procedere che ha destato forti sospetti e reticenze tra cittadini e movimenti, al punto che il Segretario di Stato Americano John Kerry durante la sua visita a Bruxelles, ha affermato che il trattato sarebbe vittima di un malinteso e che in realtà l'accordo ha l'obiettivo di innalzare al massimo gli standard di vita, non di abbassarli.
Ma per i nemici del Trattato è in atto un tentativo di sottrarre al processo democratico un accordo commerciale che intende essere molto più di un trattato di libero scambio. Tra questi il premio Nobel Joseph Stiglitz, secondo il quale la rimozione degli ostacoli al libero scambio coinvolgerà anche le regole per la tutela dell’ambiente, della salute, dei consumatori e dei lavoratori, alimentando la spirale delle disuguaglianze sociali. Insomma “una minaccia transatlantica”, che come sostiene anche John Hilary, direttore esecutivo della campagna War on Want, piegherà il pianeta agli interessi delle grandi multinazionali europee e americane.
Eppure fra teorie della cospirazione ed inevitabili allarmismi, rimane il fatto che autorevoli istituti internazionali hanno avviato una serie di ricerche, convegni e pubblicazioni per valutare l’impatto complessivo del trattato. L’aspetto più controverso riguarda la sicurezza alimentare visto che negli Stati Uniti sono consentite pratiche di produzione alimentare vietate in Europa, come l’uso della candeggina per disinfettare polli o il trattamento della carne con antibiotici. Perché l’Europa dovrebbe allora acconsentire all'introduzione di cibi potenzialmente nocivi? Chi difende il TTIP insiste che nell’accordo sarà prevista l’etichettatura obbligatoria per tutti i prodotti che circoleranno nell’eurozona, quindi anche per quelli provenienti dagli Stati Uniti. Una prospettiva poco realistica se si considera che in America i prodotti vengono venduti senza indicare la presenza di organismi geneticamente modificati. E dopo l’inchiesta FAO, pubblicata il 14 marzo 2014, sull’aumento delle contaminazioni da OGM nel mondo, poco interessa se il “mercato transatlantico” favorirà, secondo alcune previsioni statistiche , un aumento delle esportazioni di cibi genuini verso gli stessi Stati Uniti dove solo da qualche anno sono state lanciate campagne sul mangiar sano, come quella voluta da Michelle Obama per sconfiggere l’obesità infantile.
Non è solo una questione di cibo. Le normative americane sono molto meno severe, ad esempio, in materia ambientale, in particolare sulle emissioni di gas a effetto serra degli autoveicoli e sul contenuto di zolfo nella benzina. Mentre si teme che, dopo le norme restrittive introdotte da Obama in seguito al crack della Lehman Brothers, un’armonizzazione della regolamentazione USA-UE in materia bancaria possa indebolire il controllo sugli istituti di credito e favorire la diffusione di quegli strumenti protagonisti della più grave crisi finanziaria del secondo dopoguerra. Ancora. Una maggiore concorrenza nel mercato del lavoro causerebbe in Europa un crollo dell’occupazione, a provarlo, dati alla mano, uno studio rilasciato a fine ottobre dal Global Development and Environment Institute.
Ma la clausola che fa più discutere è la cosiddetta ISDS. Secondo sostenitori del trattato si tratta di strumento di diritto pubblico internazionale che permette agli Stati il ricorso all’arbitrato in caso di violazione dei termini dell’accordo. Per i detrattori invece tali clausole consentirebbe alle multinazionali americane ed europee di disporre di un potente mezzo per contestare una regolamentazione statale o comunitaria troppo stringente rispetto ai loro interessi strategici e corporativi.
Su un punto tutti sembrano comunque d’accordo: questo TTIP è un vero rompicapo. Allora come uscirne? Mentre il governo americano tace, la Commissione Europea ha appena annunciato di voler avviare una serie di consultazioni pubbliche con l'obiettivo di “illustrare più chiaramente l'oggetto dei negoziati e demistificarli". Bisognerà attendere gennaio, con la pubblicazione dei cosiddetti “position paper”, per valutare le vere intenzioni della Commissione che nel frattempo non ha riconosciuto la legittimità di un’iniziativa popolare, un milione di firme raccolte in due mesi, finalizzata a bloccare il negoziato.