Prosegue il programma dell’Agenzia ICE (Italian Trade Agency) per l’accompagnamento delle aziende italiane nell’ingresso nel mercato americano. Lanciato lo scorso autunno dal vice ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, il programma nasce con l’intenzione di aprire nuovi spazi di mercato su territori americani ancora poco esplorati dal made in Italy ma dall’alto potenziale. In questa parte del progetto il focus è sul Texas. A seguito di un incontro con le aziende in cui l’ICE ha illustrato i passaggi del programma, abbiamo intervistato Pier Paolo Celeste, direttore della rete USA delle Agenzie ICE dall’aprile 2013.
In cosa consiste questo progetto?
Vogliamo presentarci sul mercato del Texas con tutti i prodotti più visibili del made in Italy: food, wine, abbigliamento maschile e femminile, cosmetica, gioielleria, calzature. Ci stiamo alleando con la grande distribuzione organizzata, stringiamo patti con grandi catene per cofinanziare campagne di promozione dei prodotti italiani. Ragioniamo in termini di partnership, affiancando coloro che già credono nel prodotto made in Italy e già importano dall’Italia. Chiediamo loro se vogliono incrementare la quota di prodotti italiani, allargando il numero di aziende italiane da loro proposte. Noi presentiamo loro una serie di prodotti e sono poi loro a scegliere quelli che vogliono inserire nella propria offerta. Questo è un passaggio importante perché noi vogliamo che la presenza di quei prodotti nell’offerta del department store sia duratura ed è quindi fondamentale che siano loro stessi, che conoscono la propria clientela, a dirci quali sono i prodotti che interessano. Di fatto mi affido a qualcuno che conosce le regole del suo gioco e lo porto a incontrare aziende che noi abbiamo precedentemente selezionato in base alle richieste del department store. Poi realizziamo una campagna pubblicitaria pagata al 50 e 50 dal deparment store e da noi. Anche questo è importante perché, da una parte usiamo la leva economica, ma dall’altra se ci offrissimo di pagare l’intera campagna, tutti ci si butterebbero, invece in questo modo, chiedendo alla grande distribuzione di farsi carico di parte dei costi, siamo sicuri che lo faranno solo se ritengono che ci sia davvero un potenziale.
Perché proprio il Texas?
Intanto perché, con 1.280 miliardi, è il secondo stato americano per ricchezza (PIL), dopo la California. Poi perché il made in Italy è presente sulla costa Est, ma meno a Ovest. In quell’area ci sono molti stati in cui c’è grande potenziale di sviluppo. Abbiamo scelto il Texas perché nel 2013 tra le 25 aree metropolitane a maggior crescita negli USA, sette sono in Texas. E la città che è cresciuta di più in assoluto, la prima in classifica, è Austin. E non è solo una questione di PIL perché lo studio cui faccio riferimento mette insieme diversi parametri: livello occupazionale, costo e qualità della vita.
Come individuate le porte cui andare a bussare? Chi sono questi operatori della grande distribuzione con cui stringete alleanze?
Attraverso studi, ricerche e dati, riusciamo a sapere, per ogni area, chi sono i consumatori, che reddito hanno e se sono potenziali clienti di aziende italiane. Riusciamo a fare un vero e proprio guerriglia marketing, toccando città per città, in tutti gli stati dove ci interessa sapere chi sono i nostri potenziali clienti e raggiungerli. Per esplorare vari modi di vendita, diversi dal negozio tradizionale, stiamo anche lavorando sull’e-commerce e con il canale televisivo di telemarketing. Non tralasciamo nulla e ogni settore ha le sue regole.
Il made in Italy in Texas è conosciuto e apprezzato o dovrete costruire la familiarità col prodotto italiano?
Ormai il made in Italy è conosciuto e apprezzato dovunque. Se fermi un camionista dell’Iowa e gli chiedi cosa sa del made in Italy, ti dirà che il prodotto italiano è buono, bello o ben fatto. Ormai è nell’immaginario collettivo. E in questo paese è cosa consolidata. Mi capita anche personalmente, durante tante conversazioni qui negli USA, di accorgermi che le persone, quando sanno che sono italiano cambiano passo, dimostrano sempre un grande affetto, non vedono l’ora di raccontarti la loro esperienze dell’italia. E questo è trasversale a tutti i settori. Dobbiamo però far arrivare i prodotti e sfruttare questo grande amore per il nostro paese.
E chi è il vostro target tra le aziende?
I progetti del’ICE valgono per tutti. Ovviamente il tipo di servizio che forniamo è diverso, a seconda della tipologia di azienda e soprattutto diamo un supporto diverso alle aziende che vengono per la prima volta negli USA rispetto a quelle con una presenza già consolidata. Ma, ripeto, ci rivolgiamo a tutti e a tutti i livelli.
Come stanno rispondendo le aziende? L’idea del Texas piace o avete difficoltà a farla passare?
Quando abbiamo proposto alle imprese di partecipare a questo progetto, molte ci hanno detto che già stavano pensando al Texas, a conferma immediata della bontà della nostra scelta. E non avrebbe potuto essere altrimenti, perché non facciamo scelte campate in aria, ma verifichiamo le idee e alla base c’è sempre un’esperienza empirica quotidiana.
Stiamo facendo delle video conferenze in collegamento con associazioni territoriali e di settore in Italia. Ci colleghiamo ogni giorno dal mio ufficio e spieghiamo agli imprenditori italiani, insieme ad esperti di uno specifico settore imprenditoriale, le possibilità del mercato americano. L’interesse è sempre alto. Da qui a ottobre continueremo a contattare aziende e verificare il loro interesse per poi partire in autunno, in tempo per gli acquisti del 2015.
Quali sono queste azioni concrete?
Intanto l’accoglienza e il softlanding alle imprese che arrivano negli USA. Le aziende vengono qui e fanno delle prime prove inserendo i propri prodotti. Noi, per parte nostra, esaminiamo la capacità e la voglia dell’impresa di inserirsi su questo mercato. Poi testiamo il prodotto sul mercato e, a seconda della tipologia di prodotto, individuiamo dei canali e delle strategie di inserimento. Contemporaneamente raccogliamo le indicazioni dei partner della grande distribuzione, andando molto nel dettaglio e nello specifico: se parliamo di abbigliamento, per esempio, non parliamo di una generica richiesta di, per esempio, maglioni di lana, ma di maglioni di cachemere, a tre fili, rossi. Se quella è la richiesta del mercato, poi andiamo a vedere chi in Italia può darci quell’offerta. E facciamo incontrare il distributore e il produttore. Il tutto affiancato da una campagna di comunicazione (rivolta sia al trader che al consumatore) che sottolineerà che più prodotti italiani sono in arrivo su questo mercato. Saremo presenti a fiere, eventi, sfilate.
Che numeri vi aspettate?
Finora abbiamo contattato 750 aziende. In Germania è stata fatta un’operazione simile e, selezionate 600 aziende, sono stati organizzati 195 incontri tra aziende e grande distribuzione e 65 nuovi marchi sono entrati in negozio. Mi sembrano dei buoni numeri. Certo, non possiamo garantire alle aziende che saranno scelte, ma possiamo dare garanzia della selezione.
Quali sono gli errori più comuni delle aziende italiane che provano a conquistare questo mercato?
Avere la testa in Italia e pensare di operare negli USA. In questo lo scenario non è cambiato di molto rispetto a vent’anni fa quando io da New York mi occupavo di moda e vedevo le stesse cose… Abbiamo aziende che gestiscono il mercato dall’italia. E invece dovrebbero avere un rappresentante o un brand ambassador che si fa carico della storia e dell’immagine dell’impresa. Non è la stessa figura dell’agente, ma una sorta di agente evoluto. Perché il mercato si è evoluto. Deve essere l’uomo dell’azienda sul posto perché il cliente vuole vedere l’impresa al suo fianco e vuole sapere che c’è qualcuno che risponde per l’azienda. Non puoi gestire le cose a distanza.
E quali le qualità che un’azienda dovrebbe possedere per farcela negli USA?
Sono quattro le cose indispensabili da fare per essere su questo mercato: crederci, vedere con i propri occhi, vendere il prodotto corretto, investire (anche con strumenti pubblici come quelli offerti da SIMEST che offre soldi a fronte di progetti di espansione o insediamenti su nuovi mercati). Non è una questione di dimensione, ma di visione. Ci sono aziende piccolissime che hanno una visione globale e aziende enormi che hanno una visione limitata.
Una delle quattro cose che ha citato è vendere il prodotto corretto. Quale sarebbe?
Un prodotto fatto per questo mercato. Che non vuol dire per forza diverso da quello che uno vende in Italia, ma un prodotto che tenga conto delle esigenze specifiche di questo mercato. Per fare un esempio: noi in Italia vestiamo una moda più aderente, mentre in questo paese gli abiti sono più morbidi, hanno un giro manica più largo, le calzature vanno più sul comfort. Sono tutte cose da tenere presenti se si vuole vendere abbigliamento negli USA.
Pensa che gli ultimi sviluppi della situazione politica italiana stiano portando i mercati verso una maggiore fiducia nei confronti del nostro paese?
Io non ho mai visto una ripercussione negativa della politica sui mercati. Anche vent’anni fa, quando per l’Italia era uno dei periodi peggiori, cadevano governi in continuazione, ricordo che gli americani ci telefonavo chiedendoci se fossimo aperti, visto che non avevamo un governo. Ma invece il business marciava tranquillo. Non ho mai visto difficoltà specifiche legate a un momento politico. Certo, ho visto più aziende italiane venire in America in alcuni periodi o più aziende americane andare in Italia. Ma è più questione di mercati e crisi globali che non dell’effetto di una specifica situazione politica italiana. È pura economia. Da quando sono qui, ovvero 13 mesi, vedo un gran fermento: non ho mai visto la nostra bilancia commerciale scendere.
E poi noi saremo uno dei paesi che beneficeranno di più della Transatlantic Trade and Investment Partnership. Tant’è che, indipendentemente da questo progetto specifico, stiamo orientando in quella direzione tutte le azioni dei cinque uffici della rete ICE USA che coordino.
Sembrerebbe piuttosto certo che la TTIP passerà…
Passerà perché il TPP (Trans-Pacific Partnership, nda) ha rallentato parecchio e questa amministrazione deve portare a casa un risultato. Con l’Europa è più facile: gli USA e l’Europa hanno da sempre un rapporto di vicinanza maggiore che non USA e Asia. Un rapporto che non può che aumentare. E non si parla solo di benefici economici, ma è questione di benessere che cresce.
Una ricerca di Prometeia del luglio 2012 ha calcolato che a due anni dalla conclusione della partnership (che consiste nell’azzerare i dazi doganali tra USA e Europa che ora sono di media 6% e nell’abbattere le barriere non tariffarie, ovvero certificazioni, regolamentazioni e carte varie che vanno compilate dalle imprese per l’export: tutte pratiche che hanno un costo che rendono le piccole aziende poco competitive sui mercati esteri) l’Italia guadagnerebbe lo 0.5 per cento di PIL e 30.000 posti di lavoro. E considerando la crescita del nostro PIL, sono numeri interessanti…
Per chi volesse partecipare al progetto o saperne di più sul programma e le attività dell’ICE: ti.eci @kroywen